Lettera dall’UcrainaCom’è entrare in un paese in guerra al confine con l’Europa

La deputata del Partito democratico Lia Quartapelle racconta Bucha, Borodianka e Irpin, «prima erano i sobborghi scelti dalle giovani coppie della nascente classe media ucraina. Ora sono diventate per tutto il mondo sinonimi di luoghi dell’orrore»

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Sono stata a Kyiv nell’ottobre 2019 per un weekend con amici. Allora, Kyiv si raggiungeva come qualsiasi altra capitale europea, con tre ore di aereo con una linea low-cost. Ci sono tornata insieme a Riccardo Magi dal 4 al 7 maggio con una delegazione di United for Ukraine, un network di parlamentari europei, su invito del presidente del parlamento ucraino, la Rada, Ruslan Stefanchuk. Le quindici ore di treno dalla Polonia hanno segnato l’ingresso in un’altra dimensione, quella di un paese in guerra.

Telefoni spenti, finestrini del treno oscurati di notte. Orari di partenza e di arrivo determinati dal rischio di bombardamento. Ci era stato raccomandato di portare uno zainetto come unico bagaglio, contenente almeno un litro di acqua, delle batterie di riserva del telefono e del cibo per 24 ore. A Kyiv, ci è stato spiegato, c’è il coprifuoco dalle 22, si spengono le luci anche in albergo e ci si può muovere solo se si ha una parola d’ordine che viene cambiata ogni giorno.

Il treno permette un ingresso lento, non è quello stacco impersonale tra due mondi suggellato dai viaggi in aereo. L’Ucraina è un paese agricolo, struggente in questa dolce primavera di gemme e di fiori. Attraversando l’ovest del paese, sostanzialmente non toccato dai bombardamenti, sembra impossibile che qualcuno abbia aggredito queste terre placide. Le persone che aspettano nelle stazioni, gli anziani che si muovono tra i villaggi in bicicletta sono l’immagine della quotidiana tranquillità di quello che poteva essere la vita prima della guerra.

Alle istantanee di normalità catturate dal finestrino del treno si sovrappongono le immagini delle case distrutte dell’aggressione di Putin, dei civili giustiziati dai russi nelle strade caduti di fianco alla propria bicicletta, del massacro dei civili colpiti da un missile russo alla stazione di Kramatorsk.

Ecco come è entrare in un paese in guerra, al confine con l’Europa.

La prima tappa della mission prevede la visita dei luoghi dei massacri. Le cittadine residenziali intorno a Kyiv, a est del fiume Dnepr, occupate nei primi giorni della guerra dalle truppe cecene e dai reggimenti di buriati.

Bucha, Borodianka, Irpin. Prima della guerra, erano i sobborghi scelti dalle giovani coppie della nascente classe media ucraina, per i nuovi appartamenti a prezzo più basso che a Kyiv e il tanto verde. Ora sono diventate per tutto il mondo sinonimi di luoghi dell’orrore.

A Borodianka, occupata dai ceceni di Kadyrov, vivevano prima della guerra 14mila persone. Solo 1500 persone sono rimaste a viverci nei momenti peggiori. Il giovane vicesindaco di Kyiv Konstayntin Usov ci racconta di come ha organizzato l’evacuazione di emergenza di Borodianka nelle prime ore dell’invasione russa, usando gli autobus del trasporto pubblico, guidati da chiunque fosse capace di farlo. Con una richiesta postata sui social nel giro di un’ora erano riusciti a trovare più di mille autisti disponibili a andare a salvare i cittadini dei sobborghi intorno a Kyiv. Alcuni autisti volontari sono stati catturati dai russi, insieme ai loro passeggeri. Dopo il rilascio, alcuni di loro sono tornati a offrirsi volontari per l’evacuazione. Altri, troppo spaventati dalle minacce russe, hanno preferito lasciare perdere.

L’evacuazione ha risparmiato la vita di molte persone. A fare le spese della ferocia dei ceceni sono state le case di Borodianka, bombardate completamente. La piazza principale non ha più una casa intatta. I ceceni hanno giocato al tiro a segno persino con la statua del poeta nazionale ucraino Taras Shevchenko. Uno sfregio alla cultura del paese che si è ripetuto in altre zone occupate, dove sono state distrutte almeno 1070 scuole, decine di biblioteche, 617 centri culturali, dove l’esercito russo ha bruciato libri e teatri.

Bucha invece è stato il teatro dell’orrore più profondo. In città erano rimaste a vivere 4mila persone sulle quali si è scaricata la vendetta del reggimento di buriati. Più di 400 persone sono state trucidate dall’esercito russo. Nel giardino della chiesa ortodossa della città è stata ritrovata una fossa comune con 173 cadaveri di civili, con le mani legate dietro alla schiena e segni di tortura nel 95% dei casi. Tra loro anche 30 donne e due bambini.

Ci raccontano i parlamentari ucraini che ci accompagnano che il reggimento di buriati, che proviene da una zona poverissima della Siberia, quando ha saputo che doveva ritirarsi, ha sfogato la propria rabbia sulla popolazione di Bucha, rubando nelle case, stuprando e giustiziando i civili.

I russi hanno commesso crimini di guerra in tutto il paese con il sistematico intento di sopprimere l’idea stessa di una nazione ucraina. Stupri di massa, attacchi ai luoghi di cultura, deportazioni delle popolazioni delle zone occupate sono alcuni degli strumenti usati per cancellare il diritto del popolo ucraino a esistere come soggettività nazionale autonoma. La Russia ripete schemi del proprio sanguinoso passato, usando gli strumenti della guerra moderna che rendono questo accanimento più devastante. La Rada ucraina chiede che i paesi occidentali riconoscano il genocidio del popolo ucraino per mano russa. Finora solo 4 parlamenti lo hanno fatto. Magi e io solleveremo la questione in Italia.

I racconti degli stupri, raccolti in un servizio dalla giornalista di Radio Rai Azzurra Meringolo e da Massimo Vasciaveo, sono tra le testimonianze più agghiaccianti dei crimini di guerra russi. «I russi hanno stuprato i bambini qui nella scuola», racconta la voce di una donna da Hostomel. La violenza sessuale è diventata un’arma dell’occupazione militare russa. I russi hanno violentato donne, bambini sia femmine che maschi, donne anziane. Hanno detto: «Vi violenteremo fino a quando non potrete mettere più al mondo un nuovo ucraino».

L’ufficio del procuratore generale ha finora aperto 9.247 indagini di violazioni dei diritti umani e crimini di guerra. Mano a mano che l’Ucraina viene liberata si scoprono nuovi orrori. Nessuno sa quello che si scoprirà a Mariupol dove sono morte tra le 30 e le 90mila persone. Per essere utile per i processi le prove devono essere raccolte a pochi giorni di distanza dalle atrocità. C’è poco tempo, e ci sono innumerevoli denunce. Per questo molto paesi tra cui l’Italia stanno inviando in Ucraina magistrati, investigatori, psicologi, esperti forensi per collaborare con le autorità ucraine e la Corte penale internazionale in questo sforzo. Le prove verranno incrociate con fotografie, video e con le intercettazioni delle comunicazioni dell’esercito russo, per capire non solo chi ha compiuto i crimini ma anche chi nella catena di comando dell’esercito è responsabile di aver dato l’ordine.

È uno sforzo di raccolta di testimonianze e prove che non è mai stato fatto prima in nessuna guerra. L’Ucraina, aggredita dalla Russia senza motivo, cerca giustizia, non vendetta. Anche questa è la differenza tra una democrazia e una dittatura.

Ai racconti dei crimini di guerra si sovrappongono i racconti sui soldati russi. Li chiamano gli orchi, dicono che non hanno da mangiare nel loro paese e provengono da zone così povere che non hanno mai visto un WC prima di arrivare in Ucraina. Una disumanizzazione del nemico che è inevitabile in guerra ma che serve anche a superare il trauma nazionale della rottura tra due popoli così vicini e prossimi. Gli ucraini non si spiegano come sia stato possibile che i russi, con cui ci sono legami familiari di lunga data, rapporti di prossimità in quasi ogni casa, abbiano compiuto quelle atrocità senza battere ciglio. Ricorre spesso il concetto che l’Ucraina appartiene al mondo civilizzato, e si sottointende che la Russia invece no.

Negli incontri politici con la vice di Zelensky Olga Stefanishyna, il ministro della Giustizia e dell’Interno, il viceministro della difesa, il presidente del Parlamento, i consiglieri di Zelensky le richieste sono state chiare e semplici: prima di tutto armi, per difendersi. Un aiuto per ottenere giustizia e portare in giudizio chi ha commesso crimini di guerra, chi li ha ordinati e chi ha deciso l’aggressione. Infine, speranza. Cioè un aiuto a ricostruire il paese e a far entrare l’Ucraina nell’Unione europea. All’Italia, a Draghi, a cui si riconosce la prontezza nell’essersi schierato per l’adesione dell’Ucraina nell’Ue, si chiede un aiuto in più: convincere i paesi refrattari a questo ingresso, soprattutto nell’Europa del sud.

I nostri interlocutori sono convinti che l’Ucraina vincerà, che si riuscirà a liberare anche l’est del Paese. C’è una cosa che in Italia forse non è così evidente come da Kyiv. L’esercito ucraino sta respingendo i russi e sta riconquistando le province che nei primi sessanta giorni di guerra erano occupati dall’esercito russo.

La regione di Kyiv, la parte dell’Ucraina a nord-ovest del fiume Dnepr sono zone liberate. L’esercito ucraino è riuscito a sconfiggere il secondo esercito più forte del mondo. Chi era scappato dalle proprie case ci sta tornando, e sta sistemando le distruzioni. Il Parlamento, il governo, i cittadini ucraini sono determinati a continuare a liberare il proprio paese e a vincere contro chi li ha attaccati. Vincere vuole dire semplicemente tornare a vivere liberi ricacciando l’aggressore fuori dall’Ucraina.

La Federazione russa, per ridurre le perdite che sono state ingenti, ha cambiato tattica militare. Attacca con l’artiglieria pesante e con mezzi a lunga gittata. Per questo l’Ucraina chiede altri tipi di armi, per continuare a respingere l’attacco. Nessuna delle persone che abbiamo incontrato vuole fare guerra alla Russia. Semplicemente, vogliono liberare il proprio paese, che è ancora in parte occupato.

Il gruppo dirigente dell’Ucraina è un gruppo giovane, serio, capace, che ha obiettivi chiari. Trasmettono un senso di energia e determinazione. «Noi stiamo combattendo e morendo per entrare nell’Unione europea», ed è così che restituiscono il senso di quello che siamo e dei nostri valori. È anche per questo che dobbiamo a loro, e al loro popolo, tutto il sostegno e la solidarietà possibile.

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