La trascrizione del linguaggio orale (e viceversa la pronuncia di quello scritto) è un problema ben noto a chi studia le lingue straniere, e segnatamente l’inglese. Anche quelle che hanno la fortuna di possedere un alfabeto fonematico, ossia un alfabeto in cui c’è corrispondenza tra fonemi (suoni) e relativi grafemi (segni grafici), tuttavia, non sono immuni da eccezioni. In italiano, per esempio, alcuni fonemi sono trascritti con un digramma, ossia facendo ricorso a due grafemi: è il caso di gn (consonante palatale nasale), gl (laterale palatale sonora), sc (fricativa postalveolare sorda) che si pronunciano con un unico suono e non come due distinti in successione; ma anche la c e la g necessitano a volte di un secondo segno grafico, che è h quando il suono ha da essere duro (davanti alle vocali e e i) e i quando il suono è dolce (davanti alle vocali a, o e u). Un po’ complicata da imparare, soprattutto per chi non è italiano, ma è comunque una soluzione.
Un autentico rompicapo, in cui senza riuscire a mettersi d’accordo si sono esercitati linguisti e scrittori, è invece il problema di come trascrivere un suono di cui il parlato informale abusa in connessione con il verbo avere. Siccome, appunto, una soluzione soddisfacente non si è ancora trovata, per far capire di cosa parliamo lo scriviamo qui come si pronuncia: ciò (ciai, cià, ciabbiamo, ciavete, cianno), voce del verbo “ciavere”. Si può “ciavere” fame, sete, sonno, caldo, freddo, male, voglia di, ma anche si può “ciavere” un appuntamento, una casa, dei libri, tanti soldi eccetera. E qualcuno ha scelto di rendere graficamente l’espressione proprio così, di tagliare la testa al toro tagliando al verbo avere la h (conservata, dalla matrice latina habeo, nelle tre persone singolari e nella terza plurale del tempo presente) e scrivendo tutto attaccato, magari indicando l’accento non solo nelle forme tronche ma anche in quelle piane, a segnalarne la particolarità. Un escamotage “sguaiatamente dialettale”, come osserva Sergio Raffaelli sulla rivista La Crusca per voi, n. 36, aprile 2008, “oltre che equivoco, per lo meno nella forma ciò” identica (anche se non equivocabile) al pronome dimostrativo.
Ma che cos’è questa particella ci così invadente, spesso fastidiosa, apparentemente pleonastica? In realtà un suo senso (ce) l’ha: dal punto di vista grammaticale è un avverbio di luogo, dal latino ecce hic, latino tardo hice, e si può considerare un rafforzativo di “qui” (letteralmente “ecco qui”). Questo valore – riscontrabile anche nella forma più antica ce, che si è conservata davanti a lo, la, li, le e ne – è chiaramente avvertibile nelle forme flesse di esserci; molto meno, fin quasi a perdersi, in quelle di altri verbi in cui la particella si può intrufolare, come vederci (“non ci vedo chiaro”), sentirci (“non ci sento”), starci (“ci sono stato male”), trovarcisi (“mi ci trovo bene”). In questi casi, e esemplarmente in averci, l’avverbio ci è di fatto desemantizzato e il suo originario valore locativo trascolora in quella che i linguisti hanno convenuto di chiamare funzione “attualizzante”, in quanto (ancora Raffaelli, ivi) in grado di “estendere alla voce verbale un’intensificazione del senso e del suono” conferendo al costrutto ci + ho una “consonanza emotiva con la situazione comunicativa del momento”: per cui, ad esempio, ci + ho fame “equivale a ’quanto a me, in questa circostanza ho fame’ (avviene un moto in avanti e un ingrandimento che richiamano, per analogia, l’effetto cinematografico e televisivo dello zoom)”.
È un effetto che può essere efficace nel parlato, accompagnato dall’intonazione e dalla mimica del caso, ma che nella scrittura più sorvegliata sarebbe opportuno restringere alle occasionali necessità di riprodurre mimeticamente le espressioni orali. Resta il problema di come trascrivere quello che nella pronuncia non è neppure più una particella, ma un puro suono consonantico affricato (per la precisione: affricato postalveolare sordo).
Meno estreme di quella ricordata più sopra, ma a diverso titolo insostenibili, sono le altre soluzioni proposte. La più largamente utilizzata, c con apostrofo in funzione diacritica, è anche quella foneticamente più sbagliata perché il suono della lettera c seguita dalla h è velare, ossia duro, come pure quando è seguita dalle vocali a, o e u: così che la pronuncia corretta delle (scorrette) forme c’ho, c’hai, c’ha, c’abbiamo eccetera sarebbe co, cài, ca, cabbiàmo.
Lo stesso discorso vale pure per un’altra espressione, entrata nell’uso comune dalla metà degli anni Novanta sull’onda dell’epopea dipietrina: “che c’azzecca?”, variante dialettale centromeridionale (e, occorre riconoscere, anche maggiormente dotata di forza icastica) di “che c’entra”, che sui giornali viene resa appunto così ma a rigore andrebbe letta “che cazzecca”, o meglio ancora, in ossequio alle caratteristiche fonetiche delle regioni da cui l’espressione trae origine, “checcazzecca”, con geminazione consonantica e possibile riprovazione di chi, equivocando, sospettasse intenzioni politicamente scorrette.
Uno scoglio aggirabile se l’alfabeto italiano prevedesse la lettera k per il suono duro, liberando così la c per quello univocamente dolce, di modo che si potrebbe scrivere, per esempio, cokkolato per intendere quel prodotto dolciario tanto prelibato e che tende a dare dipendenza, soprattutto quando la percentuale di cacao si colloca tra il 70 e l’80-90 per cento; ma probabilmente non siamo ancora pronti a tanto, e rischieremmo di scambiare la squisita tavoletta per una stucchevole merendina made in chissà dove a base di cocco e troppo zucchero.
In ogni caso, nel nostro alfabeto la k non c’è, lo scoglio resta lì e tutti i tentativi di aggiramento finiscono inevitabilmente in un naufragio. Molti scrivono ci ho, ci hai eccetera, ma questa soluzione ha l’inconveniente di introdurre una lettera, la i, che nella pronuncia non compare, e presuppone quindi, in chi legge, la consapevolezza di non doverla pronunciare (un po’ come, per esempio, la i di cielo o di ciliegia che si vede ma non si sente; ma in questi casi, non trovandosi in una particella separata ma all’interno della parola, sarebbe piuttosto innaturale pronunciarla).
Qualcuno allora ha suggerito di scrivere la i tra parentesi – così: c(i) ho, c(i) hai -, in questo modo riproducendo correttamente il parlato, ma con esiti di rallentamento e artificiosità antitetici agli effetti di scioltezza espressiva informale che si vorrebbero ottenere. Né meno artificiosa appare l’introduzione di un suono palatale dolce, rappresentato dalla j, in funzione diacritica dopo la c – cj ho, cj hai – con il rischio, oltretutto, di creare seri dubbi al lettore italiano da oltre un secolo non più avvezzo a quella lettera (che peraltro, quando veniva utilizzata, sia come semplice vocale sia come semiconsonante, era pronunciata come una normale i).
Altre soluzioni, al momento, non sono state reperite, né paiono reperibili, a meno di adottare l’alfabeto fonetico internazionale: il che però porrebbe problemi di lettura anche maggiori, e comunque un periodo di adattamento molto lungo. Siamo realisti (e limitiamo il “ciavere” allo stretto indispensabile): non ciabbiàmo – ci abbiamo, c(i) abbiamo, cj abbiamo – abbastanza tempo.