Ottocento chilometri di costa e un entroterra che ospita tre parchi nazionali. Da sempre, la Calabria fa rima con eterogeneità, la stessa che si ritrova nella sua cucina tradizionale, caratterizzata dai sapori del mare e del suo hinterland montuoso, dall’Aspromonte al Pollino, passando per la Sila. Il tutto, senza tralasciare quella nota di piccantezza che è il marchio distintivo.
Nella parte meridionale della Regione, un lembo costiero che si affaccia sul Tirreno – parte del cosiddetto corno di Calabria – prende il nome di Costa degli Dei. È qui che anticamente si diceva avessero dimora le divinità: l’avevano scelta come casa per la suggestiva bellezza dei suoi paesaggi. Oggi si estende per poco più di cinquanta chilometri, dal comune di Pizzo Calabro a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia.
La località più nota di questa zona è Tropea, eletta “Borgo dei borghi”nel 2021. Ciò che la rende famosa in tutto il mondo è la celeberrima cipolla rossa, emblema di una cucina ricca di prodotti di altissima qualità. Non a caso nel 2017 il New York Times l’ha incoronata – non senza qualche polemica a seguito – come la «migliore d’Italia».
«La cucina calabrese mi incuriosisce, c’è ancora molto da scoprire» spiega Lorenzo Bringheli, ex fotografo di moda per Vogue. Nato a Milano ma newyorkese di adozione, Bringheli racconta il cibo attraverso scatti e immagini sulla sua pagina Instagram “Da Lobri”, «il ristorante che non esiste». Grazie a questo progetto è stato ospite nella cucina del ristorante De’ Minimi di Villa Paola (luxury hotel allestito all’interno di un ex convento cinquecentesco di Tropea), dove insieme allo chef Giulio Ierace ha organizzato una cena di degustazione basata sui prodotti locali. «Per certi versi è una cucina super semplice, ma al tempo stesso è fatta di sapori nuovi per molti che vengono da altre zone. Qui c’è tantissimo da far conoscere, più che in altre regioni che hanno già una fama gastronomica. In questo, spero che la Calabria in generale mantenga una veridicità e non cerchi di elevare la propria cucina in maniera fine a sé stessa».
Mezz’ora di automobile da Tropea e si raggiunge il piccolo comune di Spilinga, nell’entroterra, El Dorado dell’oro rosso di Calabria: la ‘nduja. Rinomato in tutta Italia così come nel resto del mondo, la ‘nduja è forse la specialità calabra per antonomasia. La “d”, in questo caso, non è muta. Al contrario, la cadenza degli abitanti del posto la rimarca e la “j” viene pronunciata come “g”, non come “i”. Si tratta di un insaccato fatto con lardo, pancetta, parti magre di maiale e peperoncino calabrese in abbondanza: la carne viene macinata, salata, insaccata e stagionata dai 3 ai 5 mesi in un luogo fresco e asciutto.
«Dal 2007 abbiamo aperto ufficialmente ma io faccio questo mestiere da sempre», racconta Antonio Rachele, titolare del salumificio artigianale che porta il suo nome. La struttura si sviluppa su due piani e le stanze sono permeate dall’odore speziato della carne appesa a stagionare. «Nel 2014 abbiamo ricevuto un finanziamento: una volta non si consumava tutta questa ‘nduja». Nato come piccola azienda individuale, il salumificio Rachele è diventato un marchio di garanzia in fatto di qualità e oggi è una realtà presente nella grande distribuzione in Calabria, Puglia e Piemonte. Il peperoncino utilizzato è quello del Monte Poro, un’eccellenza del territorio locale; il suo impiego nella lavorazione dei salumi ha luogo solo dopo una lenta essicazione sotto il sole estivo e viene utilizzato anche nella preparazione della salsiccia piccante e della soppressata calabra (‘o suppizzata).
La ‘nduja viene servita in svariati modi. Diventa salsa da spalmare sui crostini come finger food d’aperitivo (magari in accompagnamento a un gin tonic a base di Ginberg, un distillato locale al bergamotto), oppure come condimento per la fileja, la tradizionale pasta vibonese dalla forma ricurva.
Il viaggio tra i sapori della Costa degli Dei prosegue con un formaggio locale, il pecorino del Poro, che come il peperoncino utilizzato dal signor Rachele proviene dal monte a Sud-Est del corno di Calabria. Sapore sapido e consistenza pastosa: anche in questo caso la stagionatura del prodotto è decisiva e varia da un minimo di 20 giorni a un massimo di 24 mesi. L’ideale è accompagnarlo con una composta di cipolle di Tropea o con una marmellata di bergamotto.
C’è anche la “sujaca di Caria”, una varietà di fagiolo locale coltivata nei comuni di Drapia, Zaccanopoli e Zungri e servita spesso come antipasto, con il legume che viene cotto e condito con sale, pomodoro, aglio o peperoncino (a piacere) e olio d’oliva.
Dulcis in fundo: il tartufo di Pizzo è un must della pasticceria calabrese ed è il primo gelato in Europa ad aver ottenuto il marchio Igp. Viene modellato nel palmo della mano, si impiatta in forma semisferica e nasconde un cuore di cioccolato fondente fuso. Lungo il paesaggio arido della Costa degli Dei, inoltre, si trovano con frequenza piante di fico selvatico calabrese; allo chef Giulio Ierace del De’ Minimi piace sperimentare con i sapori locali e propone un dessert che fa convolare a nozze fichi, pomodori e liquirizia su una base alla crema.
Infine, dopo il caffè, non può mancare un bicchierino del famosissimo Vecchio Amaro del Capo che prende il nome dalla località litorale di Capo Vaticano, dove il granito biancastro della scogliera si fonde con il mare e regala uno dei panorami più belli di tutto il Mediterraneo.