Nel nome del sushiLa verità, vi prego, sulla cucina orientale

“Il dizionario dei sapori giapponesi. Ingredienti, piatti, cultura” di Richard Hosking, tradotto da Stefania Viti per Gribaudo, si annuncia come un punto di riferimento per i tanti appassionati di cucina orientale, per chi l’ha incontrata recentemente e per chi già la conosce

I giapponesi hanno iniziato a usare i tavoli solo nella seconda metà del secolo scorso. Prima di allora i pasti venivano serviti su vassoi a uso personale (oshiki) o vassoi con gambe (zen) posizionati a terra davanti a ogni commensale. Questa tradizione non si è affatto estinta e, al contrario di quanto avvenuto per l’usanza cinese, ha fatto sì che si continuasse a servire il cibo in porzioni individuali.

La principale eccezione a questa regola sono i piatti preparati in una grande pentola, come il sukiyaki, che si cucina al tavolo, e l’o-sechi ryōri, il cibo tipico di Capodanno, che è impacchettato in una grande scatola ed è per tutti i commensali. In famiglia tutti i piatti, a eccezione di quelli che devono essere mangiati caldi (come il riso e le zuppe) sono posizionati davanti al commensale, di solito in porzioni individuali. L’eccezione principale sono forse i sottaceti.

Dal momento che alcuni li amano moltissimo e altri no, è più comodo che vengano serviti su un piatto comune. Non sono molte le casalinghe che trascorrono la giornata a pensare all’estetica della sistemazione di tre sardine nel piatto, come farebbe uno chef professionista. Di conseguenza, il cibo che arriva in tavola è appetitoso, ma non esteticamente suggestivo.

Il menu consiste normalmente nel semplice ichijū sansai (una zuppa e tre piatti), seguito (o accompagnato) da riso, sottaceti e tè. I tre piatti sono di solito namasu (sashimi o pesce fresco con aceto), nimono (un piatto cotto stufato) e yakimono (un piatto grigliato). Questi tre possono essere sostituiti da nabemono (piatto cotto in pentola al centro del tavolo). Alla fine del pasto vengono serviti frutta fresca e tè.

Il pasto al sacco
Il pasto al sacco (bentō) è un’istituzione, versatile ed eccellente. Tutto, dal cibo da portare a scuola, per un picnic o da mangiare in treno, alla haute cuisine della shōkadō bentō o il poco più piccolo makunouchi bentō (che originariamente veniva mangiato negli intervalli delle performance di teatro Kabuki), può essere contenuto in una scatola e trasportato dove ne abbiamo bisogno. Non deve però necessariamente essere portato da qualche parte. Ci sono ristoranti, specialmente a Kyoto, che sono specializzati in pranzi in stile bentō. In questo caso, non tutto il cibo può essere contenuto in una scatola, che è il pezzo centrale di una bellissima natura morta. Solo la fame può indurre qualcuno a distruggere la gustosa disposizione di quei piccoli bocconcini.

Uno dei requisiti di un bentō è la varietà di cibi e di colori, da abbinare in modo che il risultato sia esteticamente piacevole. Dovrebbero esserci almeno dieci tipi diversi di cibo, sebbene il bentō vegetariano shōjin ryōri che si vende sulle banchine dello Shinkansen alla stazione di Kyoto ne contenga più di venti. Il riso può essere servito in una scatola separata che, unita a quella principale, forma una sorta di nido. Tradizionalmente il riso è freddo, ma al giorno d’oggi molti venditori riempiono le scatole di bentō con riso caldo al momento dell’acquisto.

Il pasto formale
I pasti formali sottintendono a un intricato e rigido sistema che regola la presentazione, dato che in questo caso l’estetica è la cosa più importante. Ka’ichi Tsuji, uno dei più grandi maestri dell’alta cucina giapponese scrive: «Nella cucina giapponese non c’è niente di più importante del saper sistemare bene il cibo, ponendo speciale attenzione al colore, su piatti scelti in modo tale da valorizzarlo». L’assenza di qualsiasi riferimento al gusto è significativa. Donald Richie, nel suo famoso libro A Taste of Japan, scrive, «Il cibo deve essere ammirato così come mangiato. L’ammirazione che si vuole suscitare va ben oltre il gusto. L’apparenza riserva le proprie soddisfazioni e si può dire che in Giappone gli occhi sono grandi tanto quanto lo stomaco. Certamente il numero di regole che coinvolgono modelli e metodi di presentazione indicano l’importanza che ha la presentazione visiva».

Ci sono due tipi principali di pasto formale. Il primo è il pasto che si consuma di solito a un matrimonio. In questo caso, la maggior quantità di cibo possibile è disposta in anticipo sul tavolo davanti al commensale. Cibi caldi come zuppe e creme salate vengono serviti durante il pasto. Il sushi o il sekihan (riso bianco al vapore con fagioli azuki, piatto celebrativo e molto delizioso) possono essere serviti a fine pasto, non tanto perché gli invitati li mangino subito, ma piuttosto perché li portino a casa.

Il menu dovrebbe essere composto secondo le seguenti regole di base: zensai (antipasto); suimono (zuppa leggera); sashimi (pesce crudo); yakimono (cibo alla griglia); mushimono (cibo cotto al vapore); nimono (cibo stufato); agemono (cibo fritto); sunomono (cibo sottaceto) o aemono (insalata di ingredienti cotti).

La fine del pasto non è sottoposta a regole troppo rigide, ma, come detto prima, è probabile che venga servito del sekihan. È altrettanto probabile che vengano serviti frutta fresca e tè.

Il secondo tipo di pasto formale è conosciuto come kaiseki ryōri (ryōri significa «cucina», «cibo cucinato«, «piatti»). Esistono due tipi di kaiseki, riconoscibili dal diverso modo nel quale vengono scritte le parole. Il tipo formale viene servito durante un certo tipo di cerimonia del tè piuttosto lungo, e viene dunque chiamato cha kaiseki. L’altro tipo di kaiseki assomiglia più a una festa dove si beve in allegria.

In tutti i pasti formali al commensale non è comunque data la possibilità di scegliere. Lo chef sceglie il menu, che segue rigide e complesse regole, la prima delle quali è che il menu deve valorizzare la stagione. Poi i piatti e recipienti devono essere scelti per valorizzare il cibo. La regola base è che il cibo di for- ma rotonda va servito su piatti quadrati, mentre cibi dalla forma squadrata o allungata su piatti tondi. C’è bisogno di molti piatti, dato che anche il modello e il colore deve accordarsi alla stagione. Il cibo è posizionato sul piatto secondo le regole giapponesi del moritsuke.

Ovviamente esistono molti altri tipi di pasti che si adattano ad altre occasioni. La colazione giapponese tradizionale segue la regola base che prevede riso bianco, zuppa di miso, sottaceti e piatti di contorno. Anche i picnic, durante i quali si mangia un’ampia varietà di cibo, sono molto popolari.

Tratto da “Il dizionario dei sapori giapponesi. Ingredienti, piatti, cultura” Richard Hoskings (1933-2019), Gribaudo editore, 224 pagine, 22,00 euro.

Richard Hoskings si è laureato a Cambridge ed è stato professore emerito di sociologia e di inglese all’Università Hiroshima Shudo. Ha vissuto in Giappone per oltre venticinque anni e ha tenuto lezioni sul cibo giapponese all’Oxford Symposium dedicato alla gastronomia e in moltissime altre parti del mondo. È autore di numerosi articoli e testi dedicati alla cultura nipponica. Il dizionario dei sapori giapponesi, originariamente pubblicata con il titolo A dictionary of Japanese Food, è la sua opera più conosciuta, nonostante non sia mai apparsa in Italia prima d’ora.

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