Tao 48La nonchalance di Franco Cordelli, maestro della distanza

I racconti dello scrittore romano sono narrazioni in soggettiva, con un punto di fuga ad altezza di romanzo. Chiede molto al lettore ma a differenza di altri autori ha un merito: non ha ceduto alle lusinghe della narrativa di consumo

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Ho sempre avuto l’impressione che Franco Cordelli offrisse alle stampe i suoi libri con una nonchalance pari alla tenacia del suo andarsene per libri e luoghi: a modo suo e come un romanzo. Mirabile attitudine, che pochi possono intendere e ancor di meno praticare. Andarsene per libri lo intendo sia come lettore – e Cordelli è lettore notevole: idiosincratico e imprevedibile – sia come scrittore: e lo scrittore segue e vale il lettore. La nonchalance, quella so che viene da una certezza: quale, non l’ho mai intesa fino in fondo: quale fosse, da dove venisse, dove finisse (ogni certezza ha un confine, un limite), come divenisse sostanza della sua prosa e dura. Oggi, dopo aver letto le prose di Tao 48, credo di saperlo.

Bisogna iniziare dal titolo. “Tao” è anche il principio del Libro del Tao (ma Cordelli precisa di non essere taoista) ma è soprattutto l’acronimo del centro di riabilitazione dove ha dovuto passare del tempo dopo un incidente. Quanto a “48”, è semplice: è un multiplo del numero otto (8). Abbiamo già due elementi: la pratica costante, anzi, apotropaica dell’ironia, e il gusto, la mania della classificazione, intesa come legge segreta che regola ed è ordine (Cordelli direbbe “struttura” – c’è di che discorrere). Cordelli, in una prosa che chiude Fuoco celeste, del 1976: “Nel mio primo romanzo, in Procida, domina, per così dire, una legge segreta, quella del numero otto”. Bene, quella legge segreta continua a reggere le sorti dei suoi libri.

Un fatto rilevante dell’operare di Cordelli è l’assoluta fedeltà ai princìpi determinati dalle esperienze degli anni Settanta: gli anni iniziali, che per lui sono stati iniziatici. Pubblica nel 1973 il suo primo romanzo, Procida, uno dei libri notevoli di quegli anni non facili; nel 1975, insieme a Alfonso Berardinelli, dà alle stampe l’antologia di poesia contemporanea Il pubblico della poesia, che fece molto discutere; l’anno successivo è la volta di Fuoco celeste (il titolo doveva essere Parco dei principi, vale a dire il sintagma iniziale della prima poesia, in omaggio a un’altra legge segreta poi superata: quella del titolo in “P”). Nella prosa che sigla il libro, Cordelli scrive: “I vecchi sovvertimenti del linguaggio sembrano del tutto digeriti o superati… si riscontra, semmai, la reviviscenza di una certa retorica, di una certa poetica o di un certo gusto per la scrittura «bianca» [il corsivo è mio; le caporali sono di C.]”. Bene: non c’è locuzione più precisa per dire la prosa di Cordelli: scrittura bianca – a dire il rifiuto del colore romanzesco, la cartapesta, e la volontà di astrazione e di geometria: ma il bianco, la geometria spaziale delle monocromatiche estroflessioni di Enrico Castellani. Insomma, una astrazione che è gioco di luci e ombre: donne e pensieri: soprattutto donne – ma non corriamo. Poco più avanti, C. dice: “è difficile immaginare il conseguimento di una «scrittura bianca» e di un «fuoco celeste» che non siano puro spirito e torre d’avorio, senza aver prima attraversato il labirinto delle giustificazioni proprie e altrui”. È quel che Cordelli ha fatto per lungo tempo: attraversare il labirinto che sono stati la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta tutti: gli anni delle giustificazioni, mentre l’Italia faceva le prime prove d’inconsistenza. (Dopo gli Anni di Piombo, saranno gli Anni da Bere, per precipitare poi negli Anni di Merda). Cordelli si toglie dalla scena della poesia e della industria editoriale (case editrici, premi letterari, poggioli romani): ai primi avvisi e per tempo entra in quella che sarà casa sua, da lì a venire: il teatro. Non che non continui a scrivere, ma da un altro posto: se ne va, come il protagonista del suo libro meno capito e per me memorabile: Guerre lontane, da Einaudi, 1990.

(Guerre lontane annunciava quello che sarebbero stati gli anni Novanta: paesaggio dopo le battaglie, anzi, la guerre perdute. Tutto stava già in nella mirabile locuzione che era titolo: guerre lontane – e perdute: e in perfetto controcanto al polittico di Balla riprodotto in copertina: Parco dei daini. Non è una scelta a caso; e non vale dire il motivo. Non voglio aggiungere altro: voglio rileggere il libro, ancora una volta: vale farlo e dedicare un testo solo a loro, Bruno e Margherita).

Tao 48, libro nato d’occasione, è diventato una sorta di viatico allo scrittore Cordelli: quarantotto prose e invariabili cordelliane: quarantotto narrazioni in soggettiva. (In realtà erano quarantotto: dopo ripensamenti e vari giri di bozze sono diventate trentadue: le altre non sono mancanti, sono caselle vuote: è tutto molto ironico). Questo sono i “testi” di Cordelli: narrazioni in soggettiva, con un punto di fuga ad altezza di romanzo. D’altro canto il soldato di guerre lontane – un esploratore – ha sempre scritto per istinto di conservazione: “lui non scriveva per alcun altro motivo che quello, per indicare quali cose tratteneva e quali no tra quelle che erano entrate dentro di lui, che gli erano state donate: insomma, per alleggerirsi di un peso, perché fosse possibile camminare, e alla fine uscire di lì”, risponde il suo alter ego a uno studente ragazzino, “continuando a buttare occhiate fuori dalla finestra”. L’alter ego di cui ogni tanto salta fuori il nome “Franco”, il cui sguardo nomade e sempre acceso non si accontenta di quel che è nella cornice, come durante la partita di calcio alla Pantanella, con i ragazzi rifugiati di colore: “il terzino destro Franco – colui che mentre gioca pensa, e mentre pensa guarda”. (Sempre altrove; e in beata solitudine). “Pensa alla sua autoradio nuova, nel suo spazio accogliente, perfetto, e guarda quelle grandi finestre vuote, i finestroni della Pantanella”. Ecco il tono delle narrazioni di Cordelli: la costante dell’equazione letteraria che lo tiene e avvinto; è il tono del vagante, in automobile, in giro per l’Europa e l’Italia, guidando una volta (ma chi sa quante?) a torso nudo, “come un camionista”, però sempre a portata di una cabina telefonica, magari in legno e presso un convento, in Slovenia, che compare nel memorabile Porta Pia, improbabile deus ex machina; comunque di un telefono, per chiamare lei, che può non essere sempre lei ma è sempre lei. Già, sono due le vere presenze delle narrazioni: i luoghi e le donne – e sono legati. Vale a dire: la tradizione italiana, da Petrarca fino all’eternità.

I titoli delle narrazioni sono (tranne uno) sempre luoghi di Roma – e a volte entrano soltanto di sfuggita: non importa, è una legge ed esplicita del libro: un omaggio. Cordelli è romano – “un senatore romano”, dice il suo alter ego una delle donne del libro, en passant – e non potrebbe essere altrimenti. Sbaglierebbe chi pensasse all’eterna elegia romana, o peggio, alla Roma della gnagnera letteraria e sciattona: non appartiene a Cordelli la miseria intellettuale dell’inconsistenza, né la pochezza. (C. era ritenuto, per un passaggio alla fonte, un uomo di potere – e forse lo è stato: non importa, qui. Certo quando è avvenuto sono state le terrazze, non i poggioli). Cordelli è nato negli anni giusti: si sente un europeo di lingua italiana, che è nato e vive a Roma. Quella Europa di cui imparavamo tutto sulle carte geografiche, sorelle alle cabine telefoniche isolate e alle vecchie berline di grossa cilindrata e benzina. Ecco la ragione, e vale due generazioni: “Era quello che conosceva meglio d’ogni altra cosa; e che gli dava un senso di stabilità, di solidità: che lui non dimenticasse mai le città del Reno e del Rodano o il senso di essere un individuo privilegiato”: un europeo di lingua italiana, che altro. Certo non New York City.

Le donne, allora – e siamo al punto. Le donne di Cordelli sono tra le pochissime figure femminili di valore degli ultimi quarant’anni di letteratura italiana. Sono donne belle – non le donne da far cadere le braccia del Cinema Romano; sono presenze, oggetto del desiderio e luogo della scrittura. È guardando alle donne che passano per le narrazioni di Tao 48 che ho saputo qual è la certezza di Cordelli: la distanza. (Sapere la distanza è dote fondamentale di uno scrittore: e non si impara, è dono: l’hai ricevuto oppure no; proprio come le donne: le donne si possono sapere, non conoscere, e certo non si possono imparare: hai avuto il dono, oppure no. È così). Dico la distanza tra il soggetto e l’oggetto (del desiderio): la distanza tra i duellanti, nel caso di uomo e donna – pure è forse così anche con la Natura, e i suoi luoghi. Ora, Cordelli ha il dono di sapere la distanza: sa qual è la distanza giusta e come vada mantenuta, a tutti i costi: serve avere l’agio del combattimento, la vera misura. Nessuno tra gli scrittori italiani sa come Cordelli il duello più sublime, quello erotico: dove soggetto e oggetto si specchiano l’uno nell’altra, si riconoscono, si elidono (nel piacere). Dove erotico va inteso alla lettera, vale a dire nel senso più ampio. Eccole, le belle duellanti: l’impavida Costanza, che ha amato e non corrisposta ama il narratore (“mi sono lasciato amare”, la clausola di lui), che pure non manca di onorarla e ancor di più, a fondo, una volta lei compiuta e gloriosa di carne, donna stante e ampia (“Costanza è un lago”); Elena, “il suo passo spedito, i suoi sandali da dea degli spazi e della luce”, una giovane insegnante che ama l’arte e vorrebbe visitare tutti i musei del mondo, e crede che lui, il narratore e alter ego, glieli farà visitare, poi vorrebbe con tutte le sue forze essere attrice “e che più tardi lasciò perdere”, una delle tre donne che il narratore dice “tre figlie”; e infine, nel posto che è della durata, il più raro dei sentimenti, c’è lei, Miranda, “la luminosa Miranda”, l’unica donna amata e incontrata al primo anno di università, poi tutto il prendersi e lasciarsi che è delle passioni e così la durata, che è sempre lì dove risplende chiara l’endiadi fatale, freschezza e serietà: Miranda non si esibisce, non ne ha necessità: “Virtù somma di Miranda fu di non farsi cogliere nel momento dell’addio alla gioventù: era rimasta sempre quel che era, una ragazza”, scrive C., ammirato. Sono loro, le donne belle, la luce della narrativa di Cordelli.

Franco Cordelli è uno scrittore a cui si torna – uno di quelli che chiedono al lettore e non poco. Può capitare di infastidirsi e di sbuffare: pure si continua a leggere, non paghi della prima reazione: ora so il motivo, il suo dono, che mi tiene sulla pagina. Maestro della distanza, anche in questo. Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli, da una parte e battaglieri, Gianni Celati, dall’altra e sempre altrove: sono gli scrittori rappresentativi di una generazione difficile, schiacciata dalla precedente, premiata dal genio delle lettere: Leonardo Sciascia, Italo Calvino, Cesare Garboli: difficile venire dopo, e operare per la letteratura negli anni che porteranno all’inconsistenza. Franco Cordelli l’ha fatto: non ha posato la penna e non ha ceduto alle lusinghe della narrativa di consumo; ha trattenuto quel che per lui valeva di tutti questi anni, e lo ha disposto in forma di parole. Valga allora la gratitudine.

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