La crisi ucraina continua a pesare sui granai mondiali, facendo fremere i paesi in via di sviluppo. Fino a oggi, l’Italia ha potuto contare sui silos pieni (ma costosi) presenti in patria, attestandosi su una soglia di tranquilla allerta. Ma questo momento di quiete potrebbe finire. L’allarme arriva da Coldiretti, che ha diffuso i primi numeri sulla produzione di grano nazionale.
All’avvio dei raccolti di grano si stima già un calo del 15%. La causa? La siccità, che ha tagliato le rese dal Nord al Sud del Paese, senza risparmiare né quello duro né quello tenero.
I dati divulgati da Coldiretti sono stati raccolti all’indomani dell’avvio della trebbiatura, iniziata in Puglia. È qui che si concentra la maggior parte della produzione nazionale, soprattutto di grano duro. Al nord, dall’Emilia Romagna al Veneto, si prevede un calo intorno al 10%, mentre per le regioni centrali la diminuzione potrebbe attestarsi al 15-20%. La maggiore riduzione del raccolto si potrebbe registrare al Sud, dove si prevede un calo compreso tra il 15 e il 30%.
Cambiamenti climatici, aumenti e dipendenze
Nonostante le polemiche, il cambiamento climatico è reale e rappresenta un’emergenza. Lo sanno bene le nostre dispense e i prezzi in aumento. Nei campi si toccano con mano le conseguenze di annate sempre più siccitose, che porteranno il raccolto ad attestarsi attorno ai 6,5 miliardi di chili a livello nazionale su una superficie totale di 1,71 milioni di ettari coltivati fra grano duro per la pasta (1,21 milioni di ettari) e grano tenero per pane e biscotti (oltre mezzo milione di ettari).
Questa situazione va a innestarsi su un aumento dei costi di produzione. Secondo le elaborazioni Coldiretti su dati del Crea, ad oggi si registrano +170% sui concimi e +129% per il gasolio, con incrementi medi dei costi correnti pari al 68%. Un’impresa su quattro produce sottocosto. In Italia, il grano duro per la pasta è quotato a 55 centesimi al chilo, mentre quello tenero, usato per il pane, si è attestato a 45 centesimi al chilo. Intanto, i consumatori pagano sempre di più per una pagnotta da un chilo. Per questo taglio occorre circa un chilo di grano, dal quale si ottengono 800 grammi di farina da impastare con l’acqua. Un chilo di prodotto finito viene venduto da 2,7 euro al chilo a 5,4 euro al chilo.
Cosa sta succedendo all’estero
Le brutte notizie che arrivano dai campi non fanno altro che aggravare la dipendenza dell’Italia dai raccolti esteri. Secondo i dati diffusi da Coldiretti, siamo in grado di produrre il 36% del grano tenero che consumiamo attraverso pani, biscotti e dolci, mentre ci fermiamo al 62% per quello duro, necessario per la pasta. Numeri non sufficienti per il fabbisogno interno. Ma anche in altre nazioni a forte vocazione cerealicola come il Canada le cose non vanno meglio.
La produzione mondiale di grano per il 2022/23 è stimata in calo a 769 milioni, per effetto della riduzione registrata in Ucraina. Qui si stima un raccolto da 19,4 milioni di tonnellate, circa il 40% in meno rispetto ai 33 milioni di tonnellate previsti in una stagione normale. La musica non cambia anche negli Stati Uniti, dove ci si fermerà a 46,8 MdT. L’India, che ha già bloccato le esportazioni per proteggere la sua economia interna, raccoglierà 105 milioni di tonnellate. Ma la notizia più interessante viene dalla Russia. Secondo gli ultimi dati dell’International Grains Council è qui che il raccolto di grano sta crescendo del 2,6%, per raggiungere 84,7 milioni di tonnellate, delle quali circa la metà – 39 milioni – destinate alle esportazioni. Ciò rischia di aggravare ancora di più il precario equilibrio geopolitico mondiale. Paesi come Egitto, Turchia, Bangladesh e Iran acquistano più del 60% del proprio grano da Russia e Ucraina. Ma tra i “clienti” ci sono anche Libano, Tunisia Yemen, e Libia e Pakistan, fortemente dipendenti dalle forniture dei due Paesi. Anche se l’Unione Europea può contare su un’autosufficienza produttiva comunitaria che va dall’82% per il grano duro, al 93% fino al 142% per quello tenero, anche il Vecchio Continente deve investire sull’agricoltura per ridurre la dipendenza dall’estero e non esporre il fianco a ricatti alimentari.
Perché abbiamo smesso di produrre grano
Ma perché l’Italia, terra ad alta vocazione agricola, disseminata di appezzamenti abbandonati, deve importare materie prime agricole? La chiave sta nei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori. In un Paese in cui si discute di salario minimo per intercessione dell’Unione Europea, la Politica Agricola Comunitaria non riesce a frenare l’abbandono delle campagne, che nell’ultimo decennio ha interessato un campo di grano su dieci.
«Bisogna intervenire per contenere il caro energia e i costi di produzione con interventi sia immediati per salvare le aziende, sia strutturali per programmare il futuro del sistema agricolo nazionale. A livello comunitario servono più coraggio e risorse per migliorare la nostra sicurezza alimentare riducendo la dipendenza dalle importazioni dei principali prodotti agricoli e dei fattori produttivi», afferma il presidente di Coldiretti Ettore Prandini. In più, «occorrono investimenti per aumentare la produzione e le rese dei terreni, con bacini di accumulo delle acque piovane per combattere la siccità. Bisogna anche sostenere la ricerca pubblica con l’innovazione tecnologica a supporto delle produzioni, della biodiversità e come strumento di risposta ai cambiamenti climatici».