Made in ItalyDemonizzare il grano estero non è la soluzione

Il caso Divella ha portato alla luce la nostra ossessione per la materia prima 100% fatta nei nostri campi, ma la verità è che il grano estero ci serve perché non ne coltiviamo abbastanza (anche se una soluzione c’è)

Qualche giorno fa la rassegna stampa dedicata alla guerra in Ucraina si apriva con questa notizia: «Dieci civili sono stato uccisi nella mattinata anche a Chernihiv dagli occupanti russi, che hanno aperto il fuoco su una fila di persone in fila per il pane». Marzo 2022 e ancora si muore per andare a comprare una pagnotta, fatta di quello quello stesso grano di cui si discute anche a due ore di volo dall’Ucraina, nel cuore dell’Europa. Preoccupandoci di marcare la distinzione tra tenero e duro, pastifici e mulini si lamentano di stock di materie prime bloccati in Russia e di attività presto al collasso, anche quando i claim sui pacchi di pasta dicono “100% grano italiano”. Un equivoco? Una truffa? Non proprio. Forse una distopia, dovuta alla nostra ossessione per le materie prime made in Italy. Figlia di un tempo recente, ha generato la migliore etichetta alimentare d’Europa, che però spesso non vogliamo pagare. Ecco perché non tutto il grano che consumiamo è italiano e forse non è neanche un male.

Il caso Divella
All’inizio di marzo una notizia ha messo al centro della scena Vincenzo Divella, patron dell’omonima industria alimentare di Rutigliano, specializzata nella produzione di pasta di semola di grano duro, biscotti, aceto, olio extra vergine di oliva, riso, sughi pronti e tanto altro ancora. In quei giorni Divella si era detto preoccupato per un carico di 30 mila quintali di grano tenero russo, che rischiava di rimanere fermo al porto di Azov, località al centro del conflitto russo-ucraino. L’intervista in cui era citato il timore dell’imprenditore pugliese ha iniziato a girare sui social e molti privati hanno iniziato a postare screenshot del titolo accanto a foto di un pacco di pasta integrale della linea “100 per 100 grano italiano”. È dovuto intervenire Domenico Divella, componente del gruppo di Rutigliano, con una dichiarazione mirata a dissipare ogni equivoco. «Gira su Facebook da giorni una fake news diffamatoria, facciamo chiarezza. La pasta nel post appartiene alla linea Integrale, che è a tutti gli effetti prodotta nella nostra azienda con semola di grano duro 100% italiano. L’articolo a destra si riferisce invece all’importazione dall’est, oggi martoriato dalla guerra, di grano tenero per la produzione di farine per panificazione e pasticceria, essendo l’Italia per la maggior parte produttrice di grano duro». Quindi il grano proveniente dalla Russia non è duro, ma tenero, impossibile da usare per la pastificazione. Eppure l’evidenza non ha fermato lo sdegno: di questo caso se ne è parlato per giorni.

Quanto importiamo e quanto conta la Russia
Il ruolo del gigante nel mercato del grano lo fa quello tenero, che rappresenta il 95% del mercato mondiale di questa materia prima. La produzione internazionale di quest’ultimo si attesta attorno a 750 milioni di tonnellate (Mt), rispetto a poco più di 30 Mt per il frumento duro. I maggiori produttori di grano tenero in Europa sono Francia e Germania, mentre tra i paesi extraeuropei la Russia guida la classifica produttiva con una media di 75 Mt (dati: Italmopa, Associazione Industriali Mugnai d’Italia). La produzione italiana di frumento duro è di circa 4,2 Mt rispetto a un fabbisogno di circa 5,8 Mt, mentre produciamo circa 3 Mt di tenero rispetto a una necessità interna di 5,5 Mt. Considerando la produzione di grano nel suo complesso, l’Italia produce il 65% del grano necessario per il fabbisogno interno, ma deve importare il 30-35%. Non si tratta di un’alternativa, bensì di una misura necessaria per colmare il divario tra domanda e offerta interna. 

Nonostante questo quadro generale, Beniamino Casillo, co-amministratore delegato di Molino Casillo, ci tiene a fare il punto sull’allarmismo generale che ha spinto gli italiani a depredare gli scaffali di pasta e farina: «Non c’è alcun problema di carenza di materie prime. La situazione è precaria, ma il grano non manca. Le giacenze mondiali di grano tenero per farina e pane sono forse al di sopra delle medie stagionali degli anni precedenti. Il problema oggi è far arrivare il grano ai mulini. I nostri lavorano costantemente e non riusciamo ad avere stock di farina. Che per noi è un brutto segno: non vogliamo speculare sulla paura, ma lavorare serenamente».

Cos’è un claim
Tenendo a mente questo quadro generale, è bene fare il punto anche su cos’è un claim e perché Divella, che importa grano tenero dall’estero come la maggior parte delle aziende italiane, può usare la dicitura “100% grano italiano” per la sua linea di pasta integrale (che, ribadiamo, è fatta con grano duro). Come spiega Michele Torelli, Quality Assurance Manager di Granoro, «i claim in etichetta devono essere veritieri. Si tratta di requisiti di Identity Preserve: quando si ha una caratteristica importante per l’identità del prodotto può giustamente essere esaltata sul packaging. Se leggiamo un claim che ci dice che il grano è 100% italiano, significa che si tratta di un’informazione veritiera. Dove non lo si dichiara con un claim aggiuntivo. probabilmente l’origine del grano è varia, cosidetto any origin, cioè che può provenire da tutto il mondo». In Italia comunque vige l’obbligo di dichiarare il luogo di origine della materia prima agricola oltre a quello in cui viene eseguita la molitura, che ovviamente è per lo più fatta in Italia. Sulla confezione può essere riportata la sigla “Ue” e/o “not Ue”: quando c’è quest’ultima, significa che il grano proviene da paesi extraeuropei, tra cui ci può essere anche la Russia. «Quindi se si dichiara un grano 100% italiano, lo si fa solo perché si può contare su una tracciabilità».

Ma che differenza c’è tra un grano italiano e uno any origin? «Usare un mix di grani – non se ne usa mai un solo tipo – dà la possibilità di garantire una costanza di prodotto. Se il grano italiano è mediamente scarso a livello proteico (il più importante indicatore qualitativo per il grano, ndr.), lo si “corregge” con grani migliori provenienti anche dall’estero. Se l’andamento climatico e colturale non mi permette di avere un grano di buon livello, si rischia di non garantire una costanza qualitativa. Per evitare queste situazioni, una delle soluzioni è la filiera. Ad esempio, Granoro richiede agli agricoltori un grano con un livello proteico pari almeno a 13g/100g. Sotto quella soglia, si rifiuta il prodotto. Questo spinge l’agricoltore a lavorare per fare qualità». Il risultato è un prodotto più costoso, ma che risponde a criteri ben precisi e ostentabili in etichetta. 

Più spazio al made in Italy con le filiere
Tuttavia questa nostra ossessione per il “made in Italy” della materia prima alimentare è storia recente. In passato, il consumatore italiano non era interessato all’origine del grano, condizione che persiste all’estero, dove il concetto di filiera non è percepito né monetizzabile. Certo, poi ci sono le frodi: il grano non ha Dna. In anni passati, le importazioni sono state demonizzate, dando all’esterno l’immagine di materie prime estere di cattiva qualità o, peggio, tossiche. Col tempo, il concetto di filiera  ha preso piede e mostrato il suo valore, proteggendo i consumatori dalle truffe, a patto di accettare di pagare un costo più alto. Il punto è che per fare filiera ci vogliono più coltivazioni italiane. Purtroppo, in Italia ci sono moltissimi terreni incolti, che non invitano nuovi agricoltori all’investimento per la bassa redditività collegata. 

Secondo i dati Istat, la superficie totale nazionale coltivata a frumento tenero è pari a 498.105 ettari per una produzione raccolta di 30.532.650 milioni di quintali. Sul fronte frumento duro, la superficie italiana coltivata passa a 1.228.503 milioni di ettari per una produzione raccolta di 41.373.262 quintali. Secondo l’ultimo report dell’Istat sul settore, nel confronto tra il 2010 e il 2020, la coltivazione del frumento duro ha aumentato la sua incidenza sul complesso delle superfici cerealicole, passando dal 36,9% al 40,3%. Un discreto incremento ha caratterizzato anche le coltivazioni di frumento tenero, passate dal 15,8% del 2010 al 16,7% del 2020. L’Emilia Romagna è la regione che destina la superficie maggiore al grano tenero, con 147.281 ettari coltivati e una produzione raccolta di 11,4 milioni di quintali. La Puglia è la regione che segna la maggior superficie coltivata a grano duro: nel 2020 si segnalano 343.500 ettari, per una produzione raccolta di 9.318.000 quintali.

Proprio al grano duro è riconducibile la previsione più elevata di incremento di superficie coltivata: le aziende agricole prevedono un rialzo significativo, pari al 5,6%. Le superfici destinate a frumento duro aumenteranno nel Nordovest (+15,2%) e nel Nordest (+24,7%,), con l’Emilia Romagna a guidare la crescita. Per il frumento tenero, si prevede invece una contrazione del +10,8: una brutta notizia visto il protrarsi dei venti di guerra (dati: Istat). 

Come incentivare le coltivazioni
«Per incentivare la coltivazione bisogna cambiare la nuova Pac europea – aggiunge Torelli – Attualmente l’agricoltore lascia il campo incolto per ricevere gli incentivi economici previsti dal protocollo europeo. La pratica è menzionata dalla Pac per incentivare la biodiversità. Si favorisce il terreno, è vero, ma dando soldi ai coltivatori senza richiedere alcuna attività, si incentivano pratiche poco virtuose e, di conseguenza, l’abbandono dei terreni». «L’Italia è il paese in cui ci prendiamo il lusso di non coltivare la terra – spiega Casillo – Come per l’energia, si pagano errori commessi su produzioni prive di programmazioni. Poi ci pensa la storia e le sue contingenze a portare a galla problematiche ataviche su cui le organizzazioni, la politica, l’imprenditoria non si è applicata quando avrebbe dovuto». 

Tuttavia ci sono artigiani (per ora solo nel campo della panificazione) che, stanchi di dipendere dai rivenditori di farina, hanno iniziato a fare da sé. È il caso di Davide Longoni, che è arrivato a coltivare 20 ettari tra frumento e segale. Fabio Cappelletti, anima di Nel nome del padre, oggi sa che le riserve messe in piede grazie al grano coltivato in autonomia rispondono esattamente al suo fabbisogno annuale. Marco Lattanzi del Panificio Il Toscano ha iniziato a produrre la sua segale a Monte Milone, in Basilicata. Di fronte all’incertezza del tempo, l’autarchia di qualità sembra una risposta efficace. Ma guardando alle grandi industrie di trasformazione alimentare, ciò che nasce in 20 ettari di terreno non basta. «L’unico modo per convincere le persone a coltivare i terreni, incentivando le colture cerealicole, è stabilire accordi di filiera che garantiscano ai produttori una marginalità, che gli consenta di lavorare in modo vantaggioso – aggiunge Casillo – Ma, per farlo senza danneggiare l’acquirente presente a valle della filiera, è necessario legare il prezzo a un listino a cui aggiungere delle premialità, che spinga in alto la qualità della produzione». Un ruolo chiave possiamo giocarlo anche noi, stimolando la domanda di filiera, anche in un tempo di prezzi in crescita e riduzione del potere d’acquisto. Mangiare meno, ma meglio può far bene a tutti.

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