A Mosca, a Mosca di Matteo Salvini da dramma teatrale si è trasformato in una commedia amara all’italiana. Come le tre sorelle di Čechov, forse il capo della Lega voleva sfuggire al grigiore provinciale della politica italiana e vivere un momento di gloria, di propaganda. Ancora una volta però l’istinto, la smania di fare, apparire più lesto e furbo degli altri, la smania e basta, lo ha cacciato in un pasticcio. Senza dire niente a nessuno ha incontrato l’ambasciatore di Mosca Sergej Razov all’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Senza dire nulla ai dirigenti del suo partito, compreso il responsabile Esteri Lorenzo Fontana, si era affidato ad Antonio Capuano per scrivere un fantomatico piano di pace e per organizzare la sua missione in Russia: un presunto esperto campano di diplomazia giuridica, un consulente dell’ambasciata russa che perfino l’ex viceré di Napoli Nicola Cosentino di Forza Italia considerava un «imbroglione».
Improvvisazione, dilettantismo. Salvini è diventato un problema. Su di lui si addensano nubi nere e sospetti. L’annuncio (abortito) del viaggio a Mosca ha messo in difficoltà il presidente del Consiglio Mario Draghi, impegnato a livello internazionale e con le altre capitali europee a trovare una soluzione alla difficilissima crisi ucraina. Il presidente del Consiglio ha evitato di polemizzare, ma ha chiarito che l’Italia è «fermamente collocata nell’Unione Europea e nel rapporto storico transatlantico. Il governo non si fa spostare da queste cose». In altre parole, Salvini come Giuseppe Conte possono agitarsi quanto vogliono ma sarebbe meglio che stiano al posto.
Il leader leghista ha immaginato di poter dare un contributo alla pace muovendosi come il classico elefante irrequieto che non si rende conto di essere in una cristalleria, partendo da una posizione (basta armi e tutto si risolverà per incanto) che nei media russi viene applaudita. Un esponente importante della maggioranza politica italiana che disturba il guidatore come quei monelli che in fondo all’autobus delle gite scolastiche fanno casino.
Se non fosse una vicenda seria per la reputazione dell’Italia, ci sarebbe da ridere. Ma l’istinto di Salvini, che in passato ha azzeccato alcune mosse nel mondo politico populista, si è spento a partire dal 2019: dalle spiagge del Papeete in poi, il Carroccio ha perso quasi quindici punti, è in coda al Partito democratico e, ancora più dolorosamente, a Fratelli d’Italia che gode della sua libera collocazione all’opposizione. La china elettorale e la fine del suo tocco magico sta provocando la perdita nel territorio di pezzi del partito (al sud in particolare) a favore di Giorgia Meloni, di quella capacità magnetica che rendeva Salvini un capo indiscusso nel suo partito. Adesso le cose sono cambiate e l’ultimo incidente ha fatto suonare l’allarme rosso.
La Lega non è più il partito leninista, monolitico. Le uscite di Giancarlo Giorgetti e del governatore veneto Luca Zaia hanno aperto una crepa difficilmente sanabile. Hanno messo in luce, mai come adesso, la cifra politica di un leader che aspira a candidarsi alla guida del centrodestra e a governare una Nazione stretta nelle forche caudine dell’inflazione, della recessione incombente, della guerra e tra Nato, Washington e Mosca. Le cancellerie occidentali e gli ambienti militari che contano guardano con apprensione per quanto potrà accadere a Roma se nel 2023 dovesse vincere una coalizione nella quale Silvio Berlusconi consiglia caldamente Zelensky di piegarsi ai desideri di Putin e Meloni, che si è smarcata da Viktor Orbàn e si è allineata ai più oltranzisti antirussi che governano la Polonia ma non ha mai preso le distanze da Trump.
Meloni, poi, considera le leggi nazionali sempre prioritarie rispetto agli interessi europei. E poi c’è lui, Salvini che stava organizzando una trasferta diplomatica con tanto di piano da portare a Mosca all’insaputa di tutto il suo partito, di Palazzo Chigi e della Farnesina. Ora il Copasir vuole vederci chiaro su Capuano e le sue attività di consulenza con alcune rappresentanze diplomatiche in Italia attinenti la nostra sicurezza. Enrico Letta chiede a Salvini di spiegare in Parlamento. Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, consiglia sarcasticamente Salvini di prendersi una vacanza anche dalle dichiarazioni pubbliche e di approfittare del lungo week end per portare la fidanzata sulla costiera amalfitana. Ma a volerci vedere chiaro, dal punto di vista politico, è in particolare l’ala governativa della Lega.
Per Giorgetti agitarsi è controproducente, scavalcare Draghi è assurdo. «Sono questioni di portata mondiale, ognuno deve poter dare il suo contributo ma all’interno di percorsi che sono molto ma molti complicati», ha spiegato il ministro per lo Sviluppo economico che da tempo osserva con preoccupazione la perdita di lucidità di Matteo.
Il punto è come gestire l’elefante nella cristalleria, come recuperare la credibilità di un segretario di partito con il quale la stessa Meloni non ha più voglia di allearsi (se non fosse per l’attuale legge elettorale che costringe alle coalizioni spurie e non in grado di governare). Anche Silvio Berlusconi è in difficoltà. Al Cavaliere è chiaro l’errore fatto al suo quasi matrimonio, dove ha incoronato Salvini come l’unico leader del centrodestra. Ha perso la faccia anche l’ex premier di fronte ai Popolari europei e al capogruppo e prossimo presidente del Ppe, l’amico Manfred Weber, che in una recente intervista al Corriere ha mostrato il volto dei difensori della libertà ucraina.
Salvini minimizza, dice che la Lega è «una grande squadra, che ha vinto e vincerà ancora», che in una grande squadra «ci sono giocatori con caratteri diversi ma gli obiettivi sono comuni. Polemiche e pettegolezzi li lasciamo volentieri ad altri».
Giorgetti e Zaia, ma anche il governatore friulano Massimiliano Fedriga sanno che è arrivato il momento di commissariare Salvini. Non hanno la forza di sostituirlo al vertice della Lega, non hanno un personaggio alternativo forte, non hanno il controllo dell’apparato del partito e dei gruppi parlamentari, non hanno il coraggio di una guerra a viso aperto per la leadership. Sanno però che il Capitano ha superato la linea rossa della credibilità. Sanno che non possono lasciargli carta bianca quando arriverà il momento di compilare le liste per le Politiche, cosa che Salvini ha fatto finora costruendo una falange attorno a sé. Giorgetti, Zaia e Fedriga temono di non essere rappresentati o di essere sottorappresentati in Parlamento. Soprattutto ora che è stato ridotto il numero degli eletti e nei collegi uninominali si preannuncia una feroce contesa con Fratelli d’Italia. Problema che con un sistema proporzionale non ci sarebbe.
I draghiani della Lega sono furiosi, atterriti dalle mosse di Salvini, dall’ipotesi di un listone con Forza Italia. Sperano che l’esperimento in questo senso in Sicilia alle amministrative e poi alle regionali fallisca. Pensano a come recuperare l’esperienza di questo governo, se non lo stesso Draghi dopo le politiche, come mantenere una linea atlantica anche alla fine della guerra quando verrà disegnata la mappa degli equilibri geopolitici. Stanno pensando a come commissariare il capo e a non farsi ridurre a una voce afona. Non sarà semplice, forse non ci riusciranno ma il tentativo è in corso.
La figuraccia in termini di percentuale di votanti che si preannuncia sui referendum sulla giustizia, sarà un’altra pietra al collo del leader leghista (adesso accusa, per una volta giustamente, i media di oscurare le consultazioni).
Le linee telefoniche dei governativi del Carroccio sono calde, i primi sintomi evidenti già ci sono. Basta vedere la fuga di un personaggio come Paolo Damilano, candidato sconfitto a Torino, uomo vicinissimo a Giorgetti. Mosse telluriche complementari a quella dentro i Cinquestelle dove la linea di Luigi Di Maio è sempre più inconciliabile con quella di Giuseppe Conte.