Ci sono nomi che vanno scritti insieme, perché il destino li ha resi un binomio. Li pronunciamo uno a fianco all’altro, con una specie di automatismo. In Italia pensiamo a Falcone e Borsellino, o ai fratelli Rosselli. Ogni Nazione ha i suoi. E anche i nomi di Dom Phillips e Bruno Pereira vanno scritti insieme, in un’aggiunta all’elenco di chi ha pagato con la vita la sua urgenza di verità.
Doveva essere uno dei loro ultimi viaggi in Amazzonia: quel plurale è diventato un singolare mentre passavano i giorni dalla scomparsa. Stavano raccontando una regione violentata dalle miniere abusive, dal narcotraffico e dalla pesca illegale. Il Brasile è uno dei posti più pericolosi al mondo dove essere un giornalista o un attivista per l’ambiente. Dopo l’arrivo al potere di Jair Bolsonaro, la situazione è peggiorata.
Phillips sta lavorando a un libro. È nel Paese dal 2007, si è reinventato corrispondente dopo una vita precedente nelle riviste di musica. I suoi articoli finiscono sul Guardian e sul Washington Post. Conosce Pereira dal 2018, quando è un funzionario della Funai, la fondazione indigena che ha anche poteri di polizia nella periferia di una Nazione immensa.
Nel 2019 mette a segno un’operazione che smantella un sito di estrazione illegale nella riserva Yanomami. Dovrebbe essere un eroe, ma la sua carriera ne risente. Il governo di Bolsonaro sta svuotando dipartimenti come la Funai in quella che somiglia a una ritirata dall’Amazzonia. Pereira viene demansionato – secondo alcuni, l’ordine arriva dalla capitale –, così si mette in proprio e inizia ad accompagnare il giornalista britannico nei suoi viaggi.
Phillips parte da Salvador, dove vive con la moglie, il 1° giugno. Dalla città di Atalaia do Norte, il varco per la Valle del Javari, si imbarca con Pereira lungo il fiume Itaquaí. Sono diretti all’interno, verso Lago do Jaburu, che raggiungono la sera di venerdì 3 giugno. Il giorno dopo, vengono minacciati a mano armata da un gruppo di uomini. Le intimidazioni non sono una novità: anche prima della partenza avevano ricevuto un messaggio minatorio. «Sappiamo chi siete, vi troveremo e ve la faremo pagare». Alle autorità brasiliane viene contestato di non averli protetti nonostante la loro denuncia. Mentre ritornano verso Atalaia do Norte, il 5 giugno, si fermano a São Rafael per un incontro a cui il capo della comunità locale non si presenta. Ripartono. Quello sull’ansa del fiume è l’ultimo avvistamento della loro barca.
Dei giorni di apprensione e speculazioni, oggi, sappiamo l’epilogo. «Anche se non trovate l’amore della mia vita vivo, dovete recuperarlo, vi prego» implora la moglie del giornalista, Alessandra Sampaio. Persino Pelé, che da quelle parti è la cosa più vicina a una divinità vivente, si unisce agli appelli online. Bolsonaro ha minimizzato, alludendo a qualche imprudenza, ma ormai il caso fa troppo rumore per silenziarlo.
Bruno Araújo Pereira ⭐❤️ pic.twitter.com/Ac7bKHdUnQ
— William De Lucca (@delucca) June 16, 2022
Al Summit delle Americhe in corso a Los Angeles il presidente brasiliano non ci sta facendo una bella figura. Le indagini cambiano oggetto: da ricerca di persone a omicidio. Viene fermato un uomo, si chiama Amarildo da Costa de Oliveira. I testimoni lo hanno visto minacciare gli scomparsi con una pistola. Verrà fuori che è coinvolto anche suo fratello Oseney. La polizia non esclude altri arresti, e il movente non è chiarissimo.
Avanti veloce. Vicino alla capanna di Amarildo sono ritrovati alcuni effetti personali di Phillips e Pereira. Alla fine, è lui ad accompagnare gli inquirenti al punto dove ha occultato i cadaveri. Sarebbe più corretto parlare di «resti umani». È lontano dal fiume. Bisogna inoltrarsi nella foresta fitta per più di tre chilometri. Ancora manca la conferma del Dna, quando i familiari delle vittime si disperano dopo notti di veglie. «Per gran parte del Brasile è stato uno shock, anche per la crudeltà: sono stati squartati – dice a Linkiesta il giornalista italo-brasiliano Diego Mezzogiorno –. L’Amazzonia non è mai stata politicamente rilevante per la gente, che la percepisce come lontana, ma in quella terra di nessuno ci sono interessi più ampi. I pescatori sono coinvolti nel traffico di stupefacenti: la zona confina col Perù e con la Colombia, gran parte della droga che arriva in Europa passa da lì, sulle barche».
La Valle del Javari, nell’estremo ovest del Brasile, è una delle regioni più isolate. Ha circa le stesse dimensioni del Portogallo e ci vivono più di 20 gruppi di indigeni. Oltre alla pesca illegale, in quel territorio lasciato a se stesso proliferano le miniere abusive di oro, il disboscamento e il traffico di droga, soprattutto cocaina. Phillips e Pereira stavano documentando anche questi fenomeni. «Ciò che è accaduto loro è il risultato dell’avanzata del crimine organizzato, che a sua volta si spiega per l’assenza dello Stato» ha raccontato un ex ufficiale del Funai all’Agence France-Presse (Afp). È qui che c’entra Bolsonaro.
Su Phillips ha fatto esternazioni inammissibili. «Ha scritto un sacco di articoli contro i minatori e su temi ecologici. In quella regione, estremamente isolata, non piaceva a molta gente. Avrebbe dovuto badare a sé, invece ha voluto fare lo stesso questa escursione». Come a dire: se l’è cercata. In un Paese normale, questo virgolettato potrebbe decretare la fine di una presidenza, ma il Brasile di questi anni non è un Paese normale. I progetti dei sovranisti per l’Amazzonia puntano allo «sviluppo» e alla «colonizzazione» del polmone verde del pianeta. Bolsonaro ha praticamente abolito la protezione dell’ambiente e ha cercato di smantellare le agenzie governative che tutelavano le foreste.
Il “Trump brasiliano”, com’è soprannominato, ha cercato di insabbiare il caso avvelenando il dibattito pubblico. «Usa internet per attaccare gli avversari – ci spiega Mezzogiorno –. C’è una nuova teoria del complotto sulla città perduta di Ratanabá, grande come San Paolo, all’avanguardia della tecnologia e nascosta dentro l’Amazzonia. È la loro spiegazione del perché “gli stranieri stanno cercando di rubare l’Amazzonia ai brasiliani”. Questa cretinata è spinta sulla rete per ingannare gli algoritmi, ma ce l’hanno fatta, è arrivata nei trend topic di Twitter e su Google si parla più di questo che dell’omicidio».
Se vi sembra una storia surreale, digitatelo nel motore di ricerca. Vi si aprirà un universo di fake news, una realtà alternativa dove la scoperta di Ratanabá sarebbe già avvenuta. Qualche pezzo riporta pure che «gli esperti scartano questa possibilità», ma dopo una photogallery di oleografie. La falsità è stata rilanciata pure dall’ex ministro della Cultura, Mário Frias.
La migliore analisi di cosa sta succedendo è apparsa sul Guardian a firma di Jonathan Watts, amico e collega di Phillips. «Dom Phillips e Bruno Pereira sono stati uccisi nella guerra non dichiarata e globale contro la natura e le persone che la difendono». In Brasile c’è la prima linea, se attivisti e giornalisti sono sotto attacco e rischiano la vita quotidianamente. Intimidazioni, violenze, molestie sono all’ordine del giorno. Diversi report indipendenti lo hanno definito «il Paese più pericoloso» per fare attivismo ambientalista. Tra il 2009 e il 2019 sono state ammazzate più di 300 persone, ha denunciato Human rights watch, e un quarto degli episodi si registra proprio in Amazzonia.
«Siamo il posto peggiore del mondo dove essere un attivista – conferma Mezzogiorno –. Un conto sono San Paolo o Rio, ma nell’entroterra del Brasile lo Stato, se c’è, c’è molto poco, specialmente nella regione amazzonica. In un’area grande come lo Stato di San Paolo, ci sono solo sei addetti federali».
Per dare un’idea del clima, la casa della leader indigena Alessandra Korap è stata colpita come ritorsione alla sua partecipazione alla Cop26 di Glasgow. Nella delegazione brasiliana alla Cop25 di Madrid del 2019, c’erano direttamente infiltrati dei servizi segreti per intimidire e sorvegliare gli attivisti. Tanto che Amnesty international ricorda: «L’omicidio di Bruno Pereira e Dom Phillips è inaccettabile, ma non è un caso isolato in Brasile». Non a caso, Bolsonaro non ha firmato l’Accordo di Escazú, un trattato tra dodici paesi dell’America Latina e dei Caraibi per garantire protezione e sicurezza a chi lavora in difesa della natura.
La migliore chiosa a questo pezzo l’ha già scritta un altro giornalista. Sempre Watts, sul Guardian, chiude così l’epicedio al suo amico. «Per me, Dom era un corrispondente di guerra del 21esimo secolo, oltreché un testimone di un crimine che probabilmente ha causato la sua morte. Non era un attivista. Era un signor giornalista, che voleva scoprire cosa stava avvenendo e condividerlo con tutti quelli che potevano risentirne. In questo caso, tutti noi. Spero che questa notizia incredibilmente tragica non sia un deterrente, ma un’ispirazione, per spingere sempre più giornalisti a coprire queste storie, specialmente nelle regioni controllate da leader allineati agli interessi dei criminali».