Alcune parti della foresta amazzonica oggi, a causa della deforestazione, emettono più CO2 di quanta ne catturano. Nonostante dati tanto preoccupanti il disboscamento e gli incendi sono fenomeni ancora difficili da arginare e monitorare. Persino il fatto che siano o meno dei crimini, e che siano punibili, è difficile da stabilire per via della carenza delle legislazioni.
Oltre alla questione meramente legale il problema è che, per come oggi è organizzato e gestito il commercio globale, è molto difficile tracciare i beni prodotti nelle zone disboscate o incendiate. Di conseguenza non li si può distinguere dagli altri prodotti e proibirli o, banalmente, decidere di non acquistarli. Una recente indagine dell’Environmental Investigation Agency (Eia) ha dimostrato che gli Stati Uniti, per esempio, hanno importato grandi quantità di legname russo proveniente da zone protette: in teoria l’acquisto non sarebbe stato possibile, ma tutti i carichi passavano per un’azienda con sede in Cina, e quindi il blocco veniva facilmente aggirato. Non si tratta di un fenomeno marginale: ben l’80% del legname prodotto nell’est della Russia viene prodotto illegalmente e la maggior parte viene esportata in Cina, da dove poi diventa molto difficile riconoscerne la provenienza.
Nel solo 2019 l’Amazzonia è stata colpita da circa 40mila incendi, perdendo quasi un milione di ettari di foreste. Per farsi un’idea è utile un dato: il fumo era così tanto che il cielo sopra San Paolo, una delle città più grandi del Brasile ma distante centinaia di chilometri dagli incendi, venne oscurato. Si stima che la quasi totalità di quei roghi avesse origine dolosa: agricoltori e allevatori appiccavano i fuochi così da poter poi espandere le loro attività. Eppure Jair Bolsonaro, presidente del Brasile, cioè il paese in cui si trova il 60% dell’intera Amazzonia, piuttosto che chiedere aiuti fece l’esatto contrario, li rifiutò. Molti leader mondiali si dicevano preoccupati, ma Bolsonaro, anziché ammettere il disastro ambientale, disse che si trattava di esagerazioni dei media, e aggiunse che «è una fallacia dire che l’Amazzonia sia un patrimonio dell’umanità». Un po’ come se il governo italiano, mentre centinaia di persone martellano e distruggono il Colosseo vendendone poi i pezzetti sul mercato nero, smentisse che il monumento romano sia poi così tanto importante. Un controsenso sospetto.
Bolsonaro oggi è accusato di aver avallato e permesso quel disastro. Non esiste una legislazione specifica che possa incriminarlo per non aver protetto l’ambiente amazzonico, così gli avvocati dell’ong austriaca AllRise e di altre associazioni di attivisti per il clima, hanno formalizzato le accuse davanti alla Corte penale internazionale dell’Aia per ‘crimini contro l’umanità’. L’idea su cui la corte si dovrà pronunciare ha molto a che fare con l’interpretazione che i giudici daranno dei diritti universali in gioco, quindi siamo nel campo delle possibilità. Ma secondo Johannes Wesemann, fondatore di AllRise, «i crimini contro la natura sono crimini contro l’umanità» e la Corte «ha il dovere di indagare su crimini di tale gravità».
Intanto, finalmente, gli Stati si muovono per colmare le lacune legislative. E per far sì che la legislazione nazionale possa definire e regolamentare la deforestazione in modo più stringente. La Commissione europea sta preparando una legge di cui, di recente, è trapelata una bozza che ha fatto molto discutere sia tra i politici che tra gli attivisti. L’idea, in ogni caso, è quella di dotare l’Unione degli strumenti necessari a regolamentare e diminuire sensibilmente il consumo di beni prodotti nelle zone protette o disboscate illegalmente. Se il Mercato europeo comune (Mec) non comprasse più beni che vengono dalle zone disboscate allora converrebbe molto meno disboscarle, questo è il ragionamento di fondo. E non solo: dato il peso specifico dell’Ue sia dal punto di vista diplomatico che da quello economico, un provvedimento simile potrebbe innescarne di simili anche in altre parti del mondo. Cosa che, effettivamente, sta già succedendo.
Il Congresso statunitense sarebbe vicino a emendare una legge che impedirà alle aziende e ai singoli cittadini di importare sia animali che piante provenienti dalle zone a rischio. Si chiama Lacey Act e colpirà soprattutto sei prodotti (olio di palma, soia, bestiame, gomma, cellulosa e cacao) che sono responsabili della maggior parte della deforestazione illegale nel continente americano e in quello africano. La proposta, come scrive l’Atlantic, «classificherebbe la deforestazione illegale come un crimine finanziario, permettendo ai pubblici ministeri di prendere di mira le aziende che usano i proventi per finanziare attività criminali». Il provvedimento al momento gode di un sostegno bipartisan: tra i sostenitori ci sono sia repubblicani, come Brian Fitzpatrick, che democratici, come Earl Blumenauer, entrambi membri della Camera dei rappresentanti.
Anche il parlamento del Regno Unito lavora a una legge simile, e dovrebbe arrivare prima dell’inizio della Cop26, la riunione annuale dei capi di stato promossa dalle Nazioni Unite e dedicata all’ambiente e al riscaldamento globale che si terrà a Glasgow il prossimo novembre. Anche in questo caso, come in quello dell’Unione Europea, l’idea è quella di far pesare le proprie scelte di consumatori: se i prodotti provenienti dai territori disboscati illegalmente non troveranno più spazio nel mercato, allora chi disbosca smetterà di farlo.
Il ragionamento è di senso compiuto, ma ci sono molte difficoltà che possono impedirne la buona riuscita. A partire dal fatto che le tre proposte dei tre principali blocchi occidentali affronterebbero sì una quantità significativa del problema: «più del 94% della deforestazione che avviene nella foresta pluviale amazzonica in Brasile, e più dell’80% di quella nei tropici indonesiani, è causata dall’espandersi delle piantagioni utili all’olio di palma», scrive sempre l’Atlantic. Ma, per esempio, non renderebbero possibile bloccare le materie prime provenienti da zone che non sono considerate ufficialmente protette dagli stati in cui esistono, come la savana tropicale del Cerrado in Brasile. Solo una minima parte, inferiore al 5% della sua superficie del Cerrado è considerata protetta.