Dopo l’accordo raggiunto in Europa sulla direttiva per il salario minimo – che comunque non prevede nessun obbligo per gli Stati membri – le questioni da risolvere nel mercato del lavoro italiano diventano sempre più urgenti. Bisogna agire in fretta davanti all’inflazione crescente. E il ministro del Lavoro Andrea Orlando in un’intervista a Repubblica spiega che si può arrivare entro l’estate a un intervento «sul lavoro povero», primo tassello di una risposta articolata per alzare i salari, da sviluppare poi con un’azione «sistematica sulla contrattazione» e un taglio del cuneo fiscale «su base pluriennale».
La direttiva europea, dice il ministro, «può aiutare a costruire in Italia un equilibrio tra contrattazione e salario minimo, indicando i criteri di un livello equo. Se ne discuterà quando arriverà la fase del recepimento, ma intanto ci offre spunti per iniziare a fare passi avanti subito». Per Orlando intanto «ora la cosa più importante è iniziare a dare un po’ di fiato ai lavoratori e discutere di precarietà, perché rischiamo si sommino più effetti: salari bassi, curva demografica negativa ed emigrazione di molti giovani. Una dinamica che può incidere a sua volta negativamente sulla produttività».
Il piano del governo è su tre livelli: «Nell’immediato, dare fiato ai salari più bassi con un intervento sul lavoro povero. Poi un’azione sistematica sulla contrattazione che garantisca un rinnovo tempestivo dei contratti e meccanismi che tengano conto, senza automatismi, dell’inflazione. E infine un intervento pluriennale di taglio delle tasse sul lavoro, a partire dalla prossima manovra. Questi tre livelli si tengono insieme, non vanno contrapposti come fa qualcuno».
Orlando parla di un patto contro il lavoro povero. E racconta di aver proposto già «alle parti sociali in via ufficiosa un’ipotesi: prendere come salario minimo il Trattamento economico complessivo (Tec) dei contratti maggiormente rappresentativi, settore per settore. Basterebbe una norma semplice di recepimento di questo principio. L’effetto sarebbe alzare il livello dei salari più bassi».
Nonostante Confindustria abbia forti dubbi sul Tec e le posizioni con i sindacati sembrino distanti, Orlando non vede «impraticabilità assolute, penso possa essere una prima risposta per sottrarre centinaia di migliaia di lavoratori al rischio povertà. La proposta è sul tavolo, penso sia ragionevole arrivare ad alcuni punti condivisi prima della pausa estiva, ma è chiaro che i tempi sono definiti anche dalla disponibilità delle parti a convergere, anche con eventuali modifiche».
In questi mesi, «sulla base dell’ascolto, abbiamo modificato molte proposte e fatto diversi accordi», dice Orlando. Sul contrasto con Confindustria dice: «Credo che Bonomi voglia solo fare polemica». E alle destre che chiedono di tagliare il cuneo fiscale, come gli industriali, più che parlare di salario minimo, risponde: «Chi guadagna 700-800 euro al mese ha bisogno di risposte, non di benaltrismo. Parliamo di salari, poi di cuneo fiscale e vediamo come interagiscono le due cose, invece di inventarci ricostruzioni fantastiche delle cause dei bassi salari». Il riferimento è al reddito di cittadinanza. «Si può alimentare l’idea – non sorretta però dai numeri – che il Reddito crei vuoti di occupazione in alcune filiere, ma nessun economista si spinge a ritenerlo la causa dei bassi salari», spiega Orlando.
La visione di Confindustria
Anche il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, intervistato dal Corriere, commenta la decisione europea sul salario minimo. «In genere c’è dove le paghe orarie sono basse», spiega. «Non è il caso dei contratti nazionali firmati da Confindustria. Per il salario minimo si parla di 9 euro lordi l’ora, mentre in quelli firmati da Confindustria anche le qualifiche basse prevedono cifre superiori. In quello dei metalmeccanici il terzo livello è a 11 euro: il più alto quelli nazionali della categoria».
Certo, dice, «esiste un mondo di contratti pirata sul quale bisogna intervenire per garantire condizioni adeguate. Dipende dalla volontà politica. È la politica che deve decidere come fare il salario minimo e prendersi la relativa responsabilità».
Eppure, prosegue, «mi preoccuperebbe se si facesse un provvedimento che scardina la contrattazione collettiva nazionale. Non è l’obiettivo del salario minimo. Se applicato, va fatto in modo intelligente. La stessa proposta di direttiva indica un livello fra il 40% e il 60% del salario mediano di ciascun Paese».
Bonomi, insomma, non dice no ai minimi salariali. Ma sempre una soluzione complessa e multifattoriale: «Oggi possiamo costruire un modello in cui nessuno sia lasciato senza tutele. Può esserci un primo livello di puro contrasto alla povertà, con il reddito di cittadinanza riformato; un secondo imperniato sul reddito minimo come definito dalla proposta di direttiva; un terzo basato sui minimi tabellari della contrattazione collettiva e un quarto livello, superiore, che integra gli altri elementi del “Tec”, il trattamento economico complessivo».
Ma soprattutto serve un patto a tre con parti sociali e governo, lo stesso di cui si parla da mesi mentre si continua a litigare. «Servono tre componenti: i sindacati, che oggi sembrano avere idee diverse fra loro, il governo e noi», sottolinea Bonomi. «Noi abbiamo fatto una proposta dettagliata, un taglio del cuneo fiscale sul lavoro da 16 miliardi concentrato sui redditi sotto ai 35mila euro. Al momento non abbiamo evidenza di altre proposte articolate e sulle nostre idee non abbiamo ancora ricevuto risposte».
E anche da parte di Bonomi non mancano le critiche a Orlando: «Da tempo che abbiamo un’occasione storica e il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva raccolto l’idea. Però poi il ministro del Lavoro ha preferito la polemica alla proposta. Non condividiamo misure come quella da 200 euro a 31,5 milioni di italiani: una tantum, con un intervento sugli extra-profitti delle imprese energetiche che resta tutto da verificare nei risultati. Non si può andare avanti a bonus, serve qualcosa di strutturale».
Bonomi prosegue: «Io sono disposto a sedermi a un tavolo in cui ci poniamo il problema oggi più acuto: le fasce di reddito sotto i 35 mila euro, in difficoltà per l’erosione del potere d’acquisto. Per loro serve un intervento strutturale, dov’è più necessario: abbassare le tasse sul lavoro, fra le più alte fra nell’Ocse».
E per «un tema così complessivo che riguarda inflazione, salari, produttività e politiche attive si deve per una volta tornare al modello della Sala Verde. In passato venivamo convocati tutti a Palazzo Chigi, ci si chiudeva dentro per giorni e se ne usciva con un accordo. A furia di farlo divenne sterile consociativismo e quella fase si è chiusa. Ma oggi, date le misure strutturali necessarie, non si può fare un patto sociale di questa portata senza confrontarsi».
Ma anche per i partiti, secondo Bonomi, «erve un patto pre-elettorale sullo spread: «Nel clima di incertezza politica e la possibile uscita di scena di Mario Draghi dopo le elezioni, il rischio che lo spread vada oltre 200 punti è molto forte».