Tutti i Paesi dell’Unione europea dovranno presto adeguare il salario minimo al costo della vita. Ma quelli in cui non è previsto, tra cui l’Italia, non sono obbligati a introdurlo. Consiglio e Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo nella notte tra lunedì 6 e martedì 7 giugno su una direttiva proposta della Commissione: ora la norma dovrà essere formalmente confermata dagli ambasciatori dei 27 Paesi membri e dall’Eurocamera in seduta plenaria. Poi gli Stati membri avranno due anni di tempo per trasporla nella legislazione nazionale.
Una paga adeguata
Con questa direttiva, i 21 Stati europei che già presentano salari minimi legali sono tenuti ad aggiornarli secondo una serie di criteri prestabiliti: i ritocchi devono avvenire almeno ogni due anni (quattro anni al massimo in quei Paesi con un meccanismo di indicizzazione automatica) e le parti sociali dovranno essere coinvolte nel processo. Le nuove soglie minime devono assicurare «standard dignitosi di vita, tenendo in considerazione le condizioni socio-economiche, il potere d’acquisto e i livelli di produttività nazionali», si legge nella comunicazione del Parlamento europeo sul tema.
I compensi saranno adeguati se coincidono con almeno il 50% della retribuzione lorda media e il 60% della retribuzione lorda mediana, cioè quella che si trova al centro della forchetta tra il dato più alto e quello più basso. Lo ha scritto in una nota Agnes Jongerius, eurodeputata olandese dei Socialisti e Democratici e negoziatrice per il Parlamento comunitario sulla direttiva. «22 Paesi dovranno alzare le loro soglie attuali», ha spiegato la parlamentare, con un effetto benefico su 24 milioni di lavoratori in tutta Europa.
Un altro punto della direttiva, considerato dai relatori «il secondo pilastro dell’accordo», riguarda la contrattazione collettiva sulla determinazione degli stipendi, anch’essa determinante contro la povertà lavorativa. Quando in un Paese il tasso di lavoratori «coperti» dalla contrattazione collettiva è inferiore all’80%, diventa necessario un piano d’azione nazionale per aumentare progressivamente il numero di persone incluse.
In quest’ambito, gli Stati sono pure obbligati ad agire contro eventuali discriminazioni o pressioni messe in atto dai datori di lavoro contro i rappresentanti sindacali. La protezione dei rappresentanti dei lavoratori è infatti molto importante secondo le istituzioni europee nel garantire che i lavoratori possano beneficiare di salari minimi adeguati.
Per l’Italia cambia poco
Attualmente nell’Unione europea 21 Paesi dispongono di una legge generale sul salario minimo: tutti tranne Italia, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Cipro. Nel nostro Paese non esiste al momento un compenso stabilito per legge, anche se alcuni lo ritengono necessario per adempiere all’articolo 36 della Costituzione, in cui è sancito il diritto del lavoratore «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro».
Se in futuro verrà adottata una norma simile, non sarà in conseguenza di questa direttiva, nonostante il clamore politico suscitato. «Non imporremo un salario minimo all’Italia», ha detto in modo chiaro il commissario europeo al Lavoro e ai diritti sociali Nicolas Schmit, affermando che la norma «rispetta le tradizioni nazionali» in materia.
Paesi come la Danimarca, ha spiegato il commissario, possiedono un ottimo sistema di contrattazione collettiva per le garanzie che assicura ai lavoratori, tanto che la Commissione spera venga «copiato» da altri Paesi.
Per l’Italia, invece, questa direttiva rappresenta piuttosto, secondo Schmit, un «contributo al dibattito nazionale», nell’ottica di una migliore tutela dei lavoratori. Nel nostro Paese, gli effetti concreti sono molto limitati: non si applicherà infatti nemmeno il piano d’azione sulla contrattazione collettiva, visto che secondo le stime i Contratti collettivi nazionali di lavoro riguardano più dell’80% dei lavoratori dipendenti.
La direttiva, comunque, contiene un chiaro messaggio politico sulla protezione salariale dei lavoratori e per Daniela Rondinelli, europarlamentare del Movimento 5 Stelle, ha pure conseguenze pratiche. «In Italia ci sono circa 300 contratti “pirata” con minimi tabellari di 3/4 euro all’ora, questo significa oltre tre milioni di lavoratori con stipendi da fame», dice a Linkiesta l’eurodeputata.
Secondo il Movimento, il livello «reale» della contrattazione è decisamente inferiore al dato stimato, visto che in molti casi le sigle sindacali che hanno firmato i contratti non sono nemmeno riconosciute dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. In Italia, la contrattazione collettiva non funziona bene, al contrario di quanto avviene nei Paesi nordici, dove supplisce efficacemente alla mancanza di una soglia minima per tutti.
Il Movimento 5 Stelle stima che per coincidere con i criteri stabiliti dalla direttiva in quei Paesi che adottano il salario minimo, gli stipendi fissati negli accordi collettivi italiani dovrebbero aggirarsi sugli otto euro, cifra non sempre rispettata.
«Tutti quei contratti che non si adeguano a questi criteri dovranno essere ritoccati al rialzo», afferma l’eurodeputata, convinta che il nostro Paese rischi sanzioni europee. La battaglia per un reddito minimo dignitoso sta a cuore a molti cittadini europei, come emerge anche dalle richieste della Conferenza sul Futuro dell’Europa: resta da vedere se verrà vinta in tutti i 27 Paesi dell’Ue.