Metti una sera La cena dei dubbi e la confusione dell’elettore moderato e progressista

Le divisioni nel Grande Centro, il futuro di Draghi, il rischio ammucchiata, l’ascesa di Giorgia Meloni e gli addetti ai lavori che brancolano nel buio

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Metti una sera a cena parlando di politica (purtroppo nulla di erotico come nella piéce teatrale di Giuseppe Patroni Griffi) con persone normali che la politica la leggono (poco) sui giornali (esistono ancora in natura) o la seguono in Tv e sui social. Tendenza sinistra moderata. 

E metti che capita loro di avere a disposizione tra gli ospiti uno (io) che per ventura della vita ha fatto il giornalista politico. Il cosiddetto presunto addetto ai lavori che subito viene sollecitato a rispondere a domande che preoccupano una parte non minoritaria di opinione pubblica. 

Che fine farà Mario Draghi? È mai possibile che dopo le elezioni politiche del 2023 lascerà Palazzo Chigi? E chi, con la stessa autorevolezza e preparazione, andrà a parlare col presidente americano Joe Biden e gestirà i rapporti con Emmanuel Macron e Olaf Scholz? 

Ma insomma, con tutti i problemi che abbiamo, la guerra che chissà quando terminerà e quali macerie, non solo fisiche, lascerà nelle nostre società, ebbene si ritorna alla politica che dice una cosa e ne fa un’altra? Un’altra ammucchiata? È possibile che non possiamo avere in Italia una maggioranza limpida e votata dagli elettori come avviene in tutto l’Occidente? 

Quante domande, quante fisime di normalità, quanti dubbi! I soliti elettori medi che vogliono mettere le mutande al mondo. E vorrebbero pure contare qualcosa!

Il vecchio cronista, tra una portata e l’altra consumata in piedi, cerca di scrollarseli di dosso, ma i cittadini non mollano. Sono angosciati, preoccupati e non sono né malati di politica, né odiatori seriali della politica e dei politici, si badi bene. Professionisti, insegnanti, sanitari con una preoccupazione autentica per il futuro del nostro Paese. Anche delle loro tasche, legittimamente. Una preoccupazione che in passato non avevo mai avvertito in maniera così acuta, profonda come un disagio, un dolore, al limite dello sgomento. 

La mazzata della pandemia, il lockdown e l’uscita dall’incubo Covid ci avevano illuso in una ripartenza spensierata. La guerra e l’invasione russa dell’Ucraina ci ha buttato di nuovo nell’incertezza su chi e come gestirà il nostro Paese, i fondi e i progetti del Pnrr. 

Chi saprà far fronte all’inflazione, chi difenderà il potere d’acquisto. Ecco che il presunto addetto ai lavori viene subissato di domande su chi vincerà le elezioni politiche, su come può il Partito democratico evitare la vittoria di un centrodestra diviso ma soprattutto considerato inadatto a governare le difficoltà e i problemi accentuati dal conflitto armato. 

«Il Pd purtroppo è solo, non ha alleati forti e sommabili», osservo da contabile della politica, «e poi c’è il problema della legge elettorale: sarà questa o il proporzionale?».

Forchette sospese davanti alla bocca. Le facce si fanno perplesse e incredule quando racconti che Enrico Letta e Giorgia Meloni potrebbero correre da soli e dividersi il bottino dei collegi uninominali e poi nella quota proporzionale chi avrà più filo si troverà in mano il pallino per formare una maggioranza. 

Magari Letta in campagna elettorale farebbe capire che Draghi potrebbe rimanere a Palazzo Chigi e questo gli farebbe prendere più voti. Sguardi perplessi, osservazione azzeccata di un commensale: «Ha più possibilità Meloni di mettere insieme i pezzi del centrodestra, sentendo odore di potere farebbe l’accordo con Salvini e Berlusconi: insieme superano il 40%». Già, aggiungo io: «Con Letta al palo perché dalla sua parte non ha nulla di veramente forte da mettere insieme ai suoi voti e ai parlamentari che riuscirà a eleggere». 

Allora, continuando a giocare al piccolo mago con la sfera di cristallo, imbarco gli sgomenti cittadini in cerca di rassicurazione per il futuro, nell’ipotesi più classica: lo scontro diretto centrosinistra versus centrodestra. L’una e l’altra coalizione dovrebbero formarsi nella consapevolezza degli effetti che la guerra sta producendo e produrrà. La politica è già ridisegnata e lo sarà ancora di più se il conflitto dovesse durare mesi, se non anni, eventualità orribile. 

Insomma, nella rovente serata romana ci avventuriamo in scenari più o meno fantasiosi, comunque creativi e i discorsi tra amici diventano surreali. Il giornalista annaspa, non avendo la più pallida idea di cosa succederà. Ancora più sconcertati gli altri, quando racconto che gli stessi protagonisti della politica, i leader, brancolano nel buio più pesto. 

Solo quelli che ti confidano: «È ancora troppo presto, le variabili sono tante, dipende da quale legge elettorale, se ci sarà la temuta tempesta perfetta che alcuni economisti e imprenditori temono, come andranno le amministrative e le regionali» e via menandola così. Sta di fatto che tutti brancoliamo nel buio e c’è chi vive nel terrore, esagerando, all’idea che a governare non sarà più Draghi.

Eppure qualcosa sarebbe utile farla fin da adesso, dico, e cito un’intervista al Corriere della Sera in cui Matteo Renzi rilancia l’idea di dare un tetto all’area Draghi, mettendo da parte personalismi, egoismi, protagonismi è tutto ciò che impedisce ad un’area politica di ambire al 10 e oltre per cento. 

È chiaro che Renzi si rivolge a Carlo Calenda, che però non vuole raggrumare i moderati, ex democristiani giurassici, scappati di casa berlusconiana in cerca di rielezione in Parlamento. Il noto e giusto repertorio. 

Al dolce e complice qualche bicchiere di bollicine, la confusione dell’elettore mediamente borghese e progressista raggiunge l’apice quando affermo che di questo passo Letta si troverà costretto a fare i conti con i Cinquestelle in calo drammatico di consensi: magari precipiteranno sotto il 10%, voti che non potranno sommarsi a quelli in ordine sparso di Calenda e di Renzi che con questa legge elettorale non toccherebbero palla. 

Comunque la metti un disastro in questa metà del campo di Agramante. 

Gli interlocutori alla fine della serata sono sempre più spiazzati. Poi c’è uno che prova timidamente a dire la sua. Confessa di avere votato Calenda a sindaco di Roma, senza eccessivo trasporto, contribuendo a quel sorprendente 20%. «Ma Renzi che vuole un tetto all’area Draghi perché non fa il bel gesto di affidare proprio a Calenda questo compito, dimostrando generosità. Magari non risolve il rebus ma almeno ci prova a trasformare un limite in una opportunità, facendo un passo indietro, mettendosi umilmente a disposizione, tagliando tutti i suoi rapporti ambigui, proponendo di dire tutti insieme, Letta compreso, che vorrebbero Draghi di nuovo a Palazzo Chigi. Hai visto mai che nelle urne fanno tombola e fregano sia Conte che il centrodestra?». 

E le liste elettorali chi li fa? lo interrompe il cinico vecchio cronista che ne ha viste di tutti i colori, facendo sentire il tizio un allocco e atteggiandosi a oracolo del male. Che fa sempre figo. L’interlocutore, che ha passato la vita in una corsia di un pronto soccorso, l’inferno da dove tutti fuggono, mi guarda stupito, «già chi fa le liste elettorali?». «Quanti posti darebbe Calenda a Renzi?», infierisco preso dal caldo di mezzanotte. Il medico rimane a bocca aperta, deglutisce meditabondo.

Saggio e ingenuo utopista, comune cittadino della strada che vorrebbe votare per un progetto, una “isione. Figuriamoci. Allora il sanitario, che ha visto più persone malati di Covid che i suoi figli negli ultimi anni, si arrende, alza le mani in aria: «Che il tetto gli crolli addosso. Che vadano tutti a farsi fottere. Si godranno in diretta tv dal Parlamento la fiducia al nuovo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, mangiando pop corn seduti sul divano. Se vengono al pronto soccorso con una indigestione e un attacco di bile vi giuro che non li curo».

Una risata, una grande risata li seppellirà.