Nel fallimento dei referendum, oltre a varie ragioni politiche e organizzative, c’e anche il segno di un leader che non ne azzecca una che è una, e da tempo. Questo leader è Matteo Salvini. Lanciatosi nell’avventura referendaria, che non poteva andare diversamente da un naufragio, poi il capo leghista proprio su questo punto si è inabissato, lasciando soli i radicali e altre forze sparse: è una metafora significativa di come sta messo.
Un cambio al vertice della Lega a questo punto sarebbe una cosa buona e giusta per le istituzioni e la sicurezza nazionale. E anche per la stessa Lega. Matteo Salvini, già ministro dell’Interno e quindi depositario di notizie riservate, dovrebbe essere deposto dalle persone che vogliono il rispetto delle regole (e la prima è non tessere rapporti privilegiati con una potenza politicamente nemica) e che hanno a cuore il destino di un partito che è nella maggioranza di governo e ha ancora una sua rappresentanza al Nord, tra i lavoratori e gli imprenditori. Salvini è ormai chiaramente un ostacolo insormontabile.
Politicamente sconnesso dalla realtà, ogni tanto s’inventa delle sortite personali che o non hanno senso (come quando va a piagnucolare da Mario Draghi che ogni volta lo rintuzza), o fanno ridere (la “missione” in Polonia sbeffeggiata da chi lo ricevette con tanto di maglietta con l’effige di Putin), o, nel loro patetismo, sono un pericolo per le istituzioni.
Dell’ultima bravata si sa ormai tutto. La storia del viaggio a Mosca pagato dall’Ambasciata russa a Roma guidata da quel simpaticone di Sergej Razov, uno richiamato ufficialmente dalla Farnesina per ben tre volte, è una storia orrenda. All’Ambasciata sarebbero poi stati restituiti i soldi del biglietto per un viaggio che alla fine non si fece mai, ma chi se ne importa se quei rubli/euro siano stati rimborsati o meno: la cosa che non si nemmeno bene nemmeno come definire – perché “grave” è poco – è che Salvini ha organizzato tutto di concerto con Razov e senza avvertire Draghi. In altre parole: un leader di un partito della maggioranza di un governo che è nella coalizione a sostegno della democrazia ucraina e contro la dittatura di Mosca ha pensato bene di farsi un paio di notti in un hotel pagato dal Cremlino (o anche di tasca sua, a questo punto conta poco), senza che le istituzioni italiane ne sapessero alcunché.
La vicenda, al di là di quanto sia inconcepibile da un punto di vista politico e istituzionale (e forse il Quirinale dovrebbe chiederne conto, essendo il presidente della Repubblica anche il capo del Consiglio supremo di difesa), evidenzia un male oscuro che deve attanagliare Salvini: un male oscuro – il “fattore S” – che gli scatena dentro un bulimia di “gesti”, un’adrenalina presenzialista, un protagonismo drogato, tutto effetto probabilmente di uno smarrimento politico drammatico.
È cioè verosimile che la obiettiva perdita di ruolo successiva alle varie figuracce collezionate sulla nomina del capo dello Stato (perché quello è il turning point esistenziale e politico del leader leghista) abbia innescato in Salvini, che è un emotivo, una frenetica ricerca di visibilità e di azione, ma senza un ordine razionale, piuttosto un po’ infantilmente. Si muove come un automa. Si era fissato con il referendum sulla giustizia e poi non ha mosso un dito, l’altro giorno ha sbroccato sull’Europa che attenterebbe ai nostri risparmi, un vecchio classico del suo repertorio. Domani ne inventerà un’altra che lascerà perdere il giorno dopo.
L’instabilità deve essere anche effetto della rabbia per il sorpasso di Giorgia Meloni, che al suo cospetto sembra una statista pur essendo politicamente identica a lui. La crisi del salvinismo, dal Papeete in poi, ha allontanato dalla Lega molte simpatie, e il partito del 34 per cento alle Europee del 2019 oggi nei sondaggi è perlomeno dimezzato e tutto lascia credere che, se Salvini restasse al suo posto, le cose andrebbero sempre peggio.
«Non ci dividerete», ci ha detto l’altro giorno in tv il senatore Alberto Bagnai che pure è un uomo di mondo e forse ha compreso quello che può succedere in casa sua. Ma finge di cadere dalle nuvole. Perché l’ora di Massimiliano Fedriga, di Luca Zaia e dell’immancabile Giancarlo Giorgetti potrebbe avvicinarsi, non domani ma un dopodomani, comunque prima delle elezioni politiche. Loro sanno che liberarsi del “fattore S” conviene a loro, e conviene a tutti.