Si dice o non si dice?La fasulla regola del sé stesso e l’inutile ossessione dei grammar nazi

Intorno a un innocuo monosillabo è nato uno degli equivoci più fastidiosi della lingua italiana. Alessandro Manzoni usava indifferentemente l’una e l’altra forma, a riprova dell’irrilevanza della scelta ai fini della comprensione

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Gli italiani, è noto, non amano molto le regole: quando sono in macchina danno malvolentieri la precedenza ai pedoni sulle strisce zebrate (ma quando sono a piedi continuano tranquillamente ad attraversare anche in presenza di un semaforo rosso); quando vanno in bicicletta pedalano allegramente contromano (perché ai ciclisti tutto è concesso, visto che si fanno carico di salvare il pianeta dagli automobilisti cattivi e maleducati – cioè in genere loro stessi quando si mettono al volante); se viaggiano in treno su una carrozza adibita ad area silenzio li puoi sentir strepitare tutto il tempo (perché loro – uèh!, ahò! – c’hanno da lavorare; ma anche da combinare l’ape preserale). E via di questo passo.

Ma sulle regolette, specialmente le più insulse e cavillose, come quelle grammaticali e ortografiche – e no, lì non transigono. 

Prendete “sé stesso”: se lo scrivete così, con l’accento (acuto) su “sé”, subito qualcuno salterà su a bacchettarvi: “Errore! Su se stesso non va l’accento!”. 

E perché, di grazia, non va? “Perché è la regola!”.

Ah ecco. Però le regole devono pur avere una ragione. Perché, dunque, quando è da solo, “sé” vuole l’accento, mentre quando è seguito da “stesso” (o anche da “medesimo”) quell’accento lo perde? Se il vostro interlocutore non si limita al ricordo di una nozione appresa probabilmente sui banchi delle elementari insieme alle filastrocche ortografiche (“su qui e qua l’accento non va, su lì e là l’accento ci sta”…), ve la spiegherà così: perché nel primo caso il “sé” pronome personale riflessivo potrebbe essere confuso con il “se” congiunzione, mentre questa eventualità si esclude quando c’è l’aggettivo dimostrativo (o più precisamente identificativo) a rimettere le cose a posto, e quindi a rendere superfluo l’accento.

Specioso argomento, viene da dire con Pirandello. Con la medesima logica, alla “è” del verbo essere si potrebbe togliere l’accento quando è evidente che si tratta di un verbo e non di una congiunzione, per esempio quando è seguita da un participio passato nella costruzione verbale del passato prossimo: “Pirandello e (è) nato a Girgenti, e (è) morto a Roma”.

Ma provate a insistere: e quando, anziché “sé stesso”, abbiamo a che fare con “sé stessi” o “sé stesse”? In questo caso “stessi” e “stesse”, oltre che il plurale dell’aggettivo identificativo, potrebbero pure essere la prima o la seconda o la terza persona del congiuntivo imperfetto di “stare”. E quindi? E quindi, dovrà concedervi per coerenza il vostro fustigatore, al “sé” va restituito l’accento. Con la paradossale conseguenza che sulla stessa parola, come in un gioco di prestigio, il paragrafema compare, scompare e ricompare. Un bel garbuglio, no?

Se poi voleste infierire sul malcapitato, potreste domandargli come si regolerebbe quando “sé” è preceduto da “a” o “per” e seguito da “stante” o da “solo” (“a sé stante”, “per sé solo”): anche in questi casi lo scriverebbe senza accento, o l’esenzione vale solo quando c’è di mezzo “stesso” (o “medesimo”)? Accidenti, attenzione a non discriminare, i guardiani del woke non perdonano.

Ora – a parte la facile constatazione che dal contesto risulta ipso facto evidente la reale natura dei due termini omografi e non sussiste una sola possibilità di equivoco, e che pertanto si potrebbe benissimo scrivere sempre “se” senza accento – se si è stabilito per convenzione di distinguere graficamente il pronome dalla congiunzione, non foss’altro per conferirgli una maggiore evidenza visiva, perché non scriverlo sempre con l’accento, che sia da solo o in compagnia?

Intendiamoci: non si tratta di distinguere tra un “sé stesso” giusto e un “se stesso” sbagliato, non è questo il punto. Ed è inutile andare a compulsare i numi tutelari della lingua – con somma sprezzatura, per esempio, Alessandro Manzoni usava indifferentemente l’una e l’altra forma, a riprova dell’irrilevanza della scelta ai fini della comprensione. Si tratta piuttosto di guardarsi dalle complicazioni cervellotiche che alimentano una “regoletta inutile e fastidiosa” (così Luca Serianni in Prima lezione di grammatica, Laterza, 2006).

Già nel 1941 il linguista Amerindo Camilli (Pronuncia e grafìa dell’italiano, Sansoni) deplorava l’assurdità di “dare la stura alle sottoregole e sottoeccezioni”, denunciando “la manìa delle distinzioni e suddistinzioni a vanvera di cui qualche volta soffrono i grammatici”. Diaboliche distinzioni, le ha bollate più di recente Luciano Satta (Scrivendo e parlando, Sansoni, 1988), disquisizioni “da perdigiorno e azzeccagarbugli” (Luciano Canepari, Manuale di pronuncia italiana, Zanichelli, 2004).

Da Bruno Migliorini (Dizionario d’ortografia e di pronunzia, Eri, 1969) agli accademici della Crusca, i linguisti non hanno dubbi. Eppure nella stragrande maggioranza dei casi, nei libri dei migliori editori, sui giornali, su ogni genere di documento scritto (e spesso nei suggerimenti dei correttori automatici) il “se stesso” senza accento eternamente ritorna come una inesorabile coazione a ripetere. Tanto che qualche lessico (Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, Utet, 2000; Dizionario della lingua italiana di Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, Rizzoli-Larousse, 2005) si è ormai arreso all’uso e accoglie entrambe le forme.

Come constatava Aldo Gabrielli nel suo Si dice o non si dice? Guida all’italiano parlato e scritto (Mondadori, 1969), siamo di fronte a “una delle regolette fasulle più dure a morire”. Ostinata allo stesso modo dei pregiudizi. E proprio come i pregiudizi – sociali, morali, religiosi, di genere – ci dice qualche cosa su chi siamo: noi italiani, irresistibilmente sedotti dai cavilli e dalle sofisticherie inconcludenti. Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, ammoniva Occam col rasoio in mano. Vale in qualsiasi situazione. Si può guardare con fiducia al futuro di un paese che moltiplica le eccezioni e semina i trabocchetti perfino intorno a un innocuo monosillabo?

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