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Lavorare da SudDue anni di South Working, tra vantaggi e limiti da superare

Per spingere i lavoratori e le aziende ad aprirsi allo smart working dal Mezzogiorno non si può fare a meno di una buona connessione Internet, collegamenti validi con aeroporti e stazioni, presidi di comunità da cui lavorare. Dopo due anni di pandemia sono stati fatti passi avanti, ma ci sono ancora carenze significative

(Unsplash)

Tratto da Morning Future

All’inizio della pandemia il lockdown aveva costretto molte persone a lavorare da casa, evitare l’ufficio e abbracciare lo smart working con una frequenza che non avevano mai sperimentato prima. Finite le prime restrizioni qualcuno – chi ne aveva la possibilità – ha deciso di non tornare al “lavoro pre-Covid”: soprattutto persone originarie del Meridione che lavoravano al Nord, hanno scelto di tornare o rimanere in Campania, Calabria, Puglia, Sicilia, Basilicata. Nella città e nella casa in cui sono nati, o scegliendo un posto del cuore.

Quando il mercato del lavoro si è stabilizzato su nuovi standard, mantenendo dosi massicce di smart working, molti sono rimasti al Sud pur lavorando per aziende di Roma, Milano, Torino o altre città italiane del Centro e del Nord.

«L’indagine condotta nell’autunno 2020 da Datamining per Svimez in collaborazione con South Working individua 45mila lavoratori delle grandi aziende del Nord che, dall’inizio della pandemia, lavorano in smart working dal Sud», dice Elena Militello, attivista e ricercatrice universitaria palermitana, fondatrice di “South Working – Lavorare dal Sud”, un movimento culturale che promuove periodi di lavoro agile dalle aree interne e dal Sud Italia.

L’indagine citata da Militello è stata condotta su un campione di 150 grandi imprese, con oltre 250 dipendenti, operanti in diverse aree del Centro-Nord nei settori manifatturiero e dei servizi. E se si considerano anche le piccole e medie imprese, con oltre 10 dipendenti, la stima mostra che il South Working ha coinvolto circa 100mila lavoratori del Sud durante il primo lockdown.

 

Prima e dopo il lockdown

Le cifre attuali invece sono difficili da individuare con precisione, spiega Militello: “Senza poter accedere a dati come quelli sull’effettivo consumo di Internet da parte delle compagnie di telecomunicazione, si possono fare solo delle stime. I soggetti raggiunti tramite social media, come follower, sono più di 13mila, con più di 2mila south worker registrati sul sito web southworking.org, mentre l’interesse pubblico è misurabile dall’attenzione della stampa e dai risultati di ricerca di Google, che restituiscono più di 300mila risultati unici di ricerca per parole esatte per il nostro marchio “South Working”.

Lo scorso aprile Elena Militello e Mario Mirabile, rappresentanti e fondatori dell’associazione, hanno pubblicato il libro “South Working – Per un futuro sostenibile del lavoro agile in Italia” (Donzelli Editore), per illustrare le possibilità e i limiti del South Working. Il loro primo obiettivo è convincere i lavoratori a rimanere al Sud a tempo indeterminato.

«L’obiettivo principale di South Working è quello di advocacy, sensibilizzare le istituzioni ad adottare politiche pubbliche per diffondere l’idea e il movimento di opinione dal basso per l’accettazione di queste modalità lavorative, cui si affiancano un Osservatorio per lo studio del fenomeno e la creazione di una Rete del South Working tra i principali portatori di interesse, ovvero lavoratori, aziende ed enti locali», dice Militello.

Ovviamente ci sono dei miglioramenti indispensabili da attuare per garantire a chi può e vuole lavorare dal Mezzogiorno degli standard accettabili.

Ad esempio non si può fare a meno di una buona connessione Internet, un efficiente collegamento a un aeroporto o a una stazione ad alta velocità (entro 2 ore con mezzo privato), la presenza di almeno un “presidio di comunità” – ovvero uno spazio, pubblico o privato, da cui lavorare rispettando le esigenze di socialità e in cui incontrarsi e incontrare anche le comunità locali – quindi spazi di coworking, biblioteche, community hub, spazi pubblici di condivisione e socialità, che possano essere intesi come dei veri e propri luoghi di partecipazione dal basso, collaborazione, innovazione e dialogo intergenerazionale per le comunità locali, per i nuovi arrivati, i “ritornanti” e chi era già presente sul territorio.

Queste sono richieste mosse soprattutto agli enti locali del Mezzogiorno. Ma potrebbe non bastare: oltre agli standard minimi c’è bisogno di un’ulteriore spinta, un incentivo a uscire dalle grandi città come Roma e Milano.

«Stiamo promuovendo forme di lavoro agile – dice Militello – a sostegno anche di un’interpretazione estensiva della norma sulla decontribuzione del 30%, affinché essa possa essere applicata non solo alle imprese che aprono una “unità operativa” al Sud, ma anche a quelle imprese che impiegano lavoratrici e lavoratori che operano agilmente dal Mezzogiorno. E abbiamo presentato una proposta di emendamento al testo di legge unificato sullo smart working approvato in Commissione Lavoro alla Camera: una proposta trasversale che vuole mettere in chiaro il definitivo superamento del concetto di lavoro agile inteso come lavoro da remoto, con il fine di valorizzare lo smart working quale modello di lavoro attorno al quale le aziende possono costruire nuove strutture organizzative».

Il principio guida di South Working è quello del give back, restituire ai territori e alle comunità locali di quanto appreso altrove da parte dei lavoratori, in modo da invertire la dinamica con cui, fino a oggi, è stata trattata la carenza di infrastrutture nelle aree marginali.

Un approccio che sul lungo periodo si dovrebbe tradurre in quel “Work form everywhere” che è già un movimento internazionale favorevole a una maggiore flessibilità per lavoratrici e lavoratori, anche a livello intraeuropeo, sfruttando le reti di comunicazione già esistenti per una maggiore mobilità, una maggiore qualità della vita, una maggiore vicinanza alle proprie reti sociali.

«Lo spostamento del capitale umano porterebbe un immediato beneficio all’economia meridionale grazie all’iniezione di liquidità, ma anche maggiori investimenti e una maggior pretesa dei cittadini di ricevere servizi migliori e più efficienti», aggiunge Militello.

L’idea di fondo è che le infrastrutture necessarie al lavoro agile (una connessione stabile e veloce, un sistema di trasporti pubblici funzionante e delle aree di coworking) nasceranno lì dove sarà maggiore la domanda di south worker che sceglieranno i territori dove abitare e lavorare.

Chi spinge sul South Working, però, non lo fa solo per amore della propria terra o per godersi clima e panorama.

Già prima del 2020 molti studi sottolineavano i potenziali vantaggi del lavoro a distanza – e per obiettivi – per il datore di lavoro: si parla di incremento di produttività, miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori, maggiore motivazione, riduzione degli straordinari e dei fenomeni di assenteismo, ottimizzazione dei costi.

Un sondaggio condotto dall’Associazione Italiana per la Direzione del Personale (Aidp) rivela che il South Working negli ultimi 24 mesi abbia riguardato il 27% delle aziende, ma solo il 15% avrebbe consentito ai dipendenti originari delle regioni del Mezzogiorno di continuare il lavoro in South Working anche dopo il 30 giugno 2022, a fronte del 58% delle aziende che ha espresso un parere contrario.

Ci sono ostacoli che il Paese storicamente non riesce a superare e altri di natura culturale che frenano la diffusione del South Working. Il fenomeno sarebbe evidentemente un vantaggio per un Paese ancora segnato da disuguaglianze territoriali e da dinamiche di lavoro fossilizzate sui dogmi di epoche passate.

La strada per rendere il Mezzogiorno davvero attraente per una grossa fetta dei lavoratori italiani è ancora lunga.

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