Quest’anno sarà un Natale insolito per tutti gli italiani, ma soprattutto per coloro che per la prima volta dovranno fare a meno degli affetti della propria famiglia, perché confinati in città agli antipodi del Paese. Se per qualcuno, infatti, il Natale rappresenta solo l’ennesimo manifesto di una società consumista, per la maggioranza degli italiani esso significa ancora qualcosa di più. Questa festività rappresenta un fondamentale momento dell’anno nel quale poter sospendere quella vita frenetica fatta di lavoro e sacrificio e, per molti, riabbracciare così i propri genitori e quella terra natia troppo spesso abbandonata per inseguire un sogno o semplicemente un’occupazione. Quell’opportunità che negli anni ha spinto molti italiani del Sud a lasciare le proprie radici per rifugiarsi in un monolocale o una stanza in affitto nel Nord del Paese, là dove Milano significa successo.
Una metropoli che da sempre ha svolto il compito di faro per le masse in cerca di lavoro e, recentemente, da collettore di opportunità per gli studenti di tutta Italia e non solo. Non a caso Milano ha fatto dell’accoglienza delle migliori menti e dello spirito del self made man, quella linfa vitale necessaria a crescere e rinnovarsi costantemente, riuscendo con essa a cambiare radicalmente i propri riti e confini.
Dall’epoca industriale, quando la metropoli meneghina era un centro nevralgico e affollato solo in coincidenza dei periodi lavorativi, per poi svuotarsi d’estate e nei week-end, all’attuale configurazione di città senza riposo. Soprattutto da Expo in poi, infatti, Milano non ha mai smesso di svuotarsi, grazie alle fiere, le mostre e le folle di turisti provenienti da tutto il mondo, che hanno reso necessaria un’operatività del capoluogo lombardo sette giorni su sette e h24. Tant’è che l’unico momento di pausa inviolato, almeno fino a questo tragico 2020, era per l’appunto il Natale: quando tutti i nuovi milanesi d’adozione si organizzavano per tornare alla propria casa e famiglia d’origine, spesso al Sud. Ma quest’anno, proprio a causa delle recenti misure contro la pandemia attuate dall’esecutivo, è stata suggellata anche la caduta di quest’ultimo grande tabù: e ora anche le vacanze natalizie sono confinate alla sola metropoli e questo per i milanesi acquisiti rappresenta, forse, la prova del nove.
Una nuova sfida per la città stessa, che da luogo di lavoro è di fatto costretta a trasformarsi in una grande famiglia, capace di ascoltare le difficoltà e bisogni dei propri cittadini, di aiutarsi e aiutare ad accogliere le paure altrui e proprie senza giudicare. Ma Milano è pronta per tutto questo?
Stando ai dati della prima ondata la risposta sembrerebbe ambigua. D’altro canto sarebbe stupido pensare che fenomeni come il south-working e quella che è stata etichettata come la grande fuga degli incoscienti, quando migliaia di persone hanno rincorso un treno verso casa, siano state risposte del tutto slegate dall’insofferenza di stare lontano dai propri affetti. Tanto è vero che quello che queste persone hanno cercato di comunicare è forse uno stato di disagio profondo, qualcosa che un lavoro e le opportunità offerte da una grande città non possono sempre colmare: ovvero la possibilità di sviluppare dei rapporti umani profondi, relazioni fatte di affetti e che finiscono purtroppo per essere ritrovate solo là dove tutto è cominciato, ovvero nella propria terra natia. Una sorta di luogo quest’ultimo, nel quale fare il pieno di affetto da poter dispensare un po’ tutto l’anno, come se fosse una compensazione per una vita consumata lungo un unico tragitto, quello tra casa e il lavoro.
Ed è proprio su quest’ultimo modello esistenziale che è importante avviare una riflessione profonda: quant’è sostenibile, soprattutto nel lungo periodo, imporre ritmi di vita e una qualità della stessa intrisa dei sacrifici di coloro che possono scambiarsi affetti solo tra colleghi di lavoro? Davvero ci si può accontentare di un’esistenza contraddistinta solo dal successo e dal fatturato?
Ed è per questa ragione, e al di là delle modalità con le quali è stata presa la decisione della zona rossa generale, che è importante riflettere, come suggerisce anche Papa Francesco, sul fatto che tutti noi dobbiamo prenderci cura delle nostre fragilità e di quelle altrui, aiutando chi ha più bisogno. Ma non solo: occorre anche indirizzare la classe politica verso l’attenzione alla qualità delle relazioni umane all’interno della metropoli. In altre parole, accanto allo sviluppo economico e alla sostenibilità ambientale, è necessario includere anche la dimensione delle relazioni sociali e degli affetti: entrambi pilastri portanti sui quali sviluppare una nuova Milano. Insomma creare le basi per una nuova sostenibilità della dimensione umana con al centro la valorizzazione delle relazioni e l’unicità degli individui.
La progettazione delle città infatti, per non ripetere gli errori del passato, deve prevedere spazi di relazione dove progettare un futuro sostenibile e solidale, superando così le attuali le contraddizioni di modelli sconnessi dalla necessità della società civile.
A tutti gli effetti Milano è chiamata all’ennesimo gradino da salire, quello scatto da compiere che il Covid ha imposto e che può essere l’acceleratore non voluto, ma necessario per andare incontro a un futuro a misura d’uomo. Dopo gli esordi della metropoli, fondati sulla produzione e l’industria ormai lontane geograficamente dall’attuale configurazione della città, e dopo gli anni del terziario e dei servizi, ormai sdoganati dall’attività in remoto, Milano potrebbe quindi scoprire nelle relazioni e negli affetti una nuova sorgente di sviluppo sostenibile. Trasformandosi così in un luogo dove accedere a opportunità lavorative, esperienze formative, contaminazioni culturali e finalmente relazioni affettive; combinando così tra loro il successo professionale e quello interpersonale.