Un piccolo borgo medievale in provincia di Palermo è diventato l’esempio di come società civile, amministrazioni locali e altre istituzioni possono dialogare per rendere funzionale, accessibile e sostenibile lo smartworking nel Sud Italia. Cioè uno dei principali argomenti di discussione politica, economica, sociale degli ultimi 12 mesi.
A Castelbuono l’associazione “South Working-Lavorare al Sud” ha collaborato con il Comune, il Centro Commerciale Naturale, il museo civico, il museo naturalistico e il centro Polis per creare spazi pubblici per il coworking: hanno messo su le postazioni ad hoc e hanno installato un sistema WiFi avanzato (minino 20Mbps) offerto da Fiber Telecom e un tool di prenotazione delle postazioni. Poi hanno creato sinergie con le strutture ricettive, i ristoranti per la pausa pranzo e qualche proposta per il tempo libero.
Si è parlato molto di “southworking”, cioè del fenomeno per cui lavoratori originari del Mezzogiorno che lavorano per un’azienda del Centro-Nord (o all’estero) sono rientrati nella loro regione di origine in virtù della necessità di lavorare in smartworking durante la pandemia.
Mario Mirabile, fondatore e vicepresidente di South Working, ci dice che quello di Castelbuono è «un modello che si può e si deve estendere e replicare anche altrove. Ai Comuni chiediamo soprattutto tre cose: banda ultra larga; trasporti per raggiungere i principali centri urbani, quindi aeroporti e tav; un aumento degli spazi di lavoro condiviso».
L’idea dell’associazione South Working-Lavorare al Sud è di aiutare a creare le condizioni, per chi lavora da remoto, per restare al Sud anche dopo la pandemia. Ma se da un lato sembra di essere davanti a un’occasione storica per accorciare il divario territoriale, economico e sociale all’interno del Paese, dall’altro sembra una sfida ancora molto difficile da vincere: mancano infatti alcune condizioni indispensabili per convincere le persone a non tornare, dopo la pandemia, nelle regioni del Centro e del Nord, cioè dove avevano trovato servizi migliori, più occasioni di lavoro e contesti più adeguati alle loro esigenze.
«Per anni le Ong e altre iniziative finanziate dal governo hanno cercato di invogliare i giovani professionisti a tornare al Sud, offrendo incentivi e agevolazioni fiscali. Ma la mancanza di una strategia politica per affrontare la disoccupazione giovanile, le scarse infrastrutture e la mancanza di opportunità hanno fatto sì che l’impatto di tali sforzi rimanesse limitato», scriveva Politico.eu in un articolo di qualche giorno fa.
I dati Svimez confermano il trend: in 15 anni due milioni di giovani laureati e lavoratori si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Nord Italia. Ma l’ultimo anno ha stravolto tutto e lo smartworking ha assunto altre dimensioni: circa 7 milioni di italiani hanno sperimentato soluzioni di lavoro agile durante il 2020 (erano 500mila un anno fa), con una quota di circa 145mila lavoratori che in questo periodo hanno deciso di trasferirsi nel Mezzogiorno.
Tra i vantaggi più riconosciuti nello spostarsi al Sud ci sono il minore costo della vita (per l’81 per cento, dati Svimez) e la disponibilità di un’abitazione a basso costo (69 per cento). A scoraggiare i lavoratori invece ci sarebbero soprattutto i servizi sanitari (80 per cento), quelli di trasporto (75 per cento) e poi quelli legati a scuola e famiglia (72 per cento).
Per convincere chi è andato via a restare lavorando a distanza serviranno investimenti per coprire queste carenze, dice a Linkiesta il direttore dello Svimez Luca Bianchi: «Saranno cruciali i servizi essenziali come scuola e Sanità. Perché è qui che si giocherà la competizione tra territori nei prossimi anni. Poi però il ripopolamento di certe aree si muove anche sulle relazioni sociali, che cambiano l’aspetto e l’economia di un luogo: il rientro di poche decine di studenti e lavoratori in un piccolo centro fanno riaprire le attività, i cinema, i ristoranti».
La precondizione per poter evitare la fuga di cervelli, secondo Bianchi, è la disponibilità di una connessione internet ad alta velocità. Secondo le stime del Ministero dello Sviluppo economico, a fine 2019 solo due italiani su tre vivevano in un’area coperta dalla banda larga e solo uno su cinque poteva accedere alla banda ultralarga. Ma, a questo proposito, il problema non è tanto nella differenza tra Nord e Sud, quanto nella differenza tra “centro” e “periferia”.
«L’Italia sconta un ritardo infrastrutturale per quanto riguarda le reti di telecomunicazione ad altissima capacità», dice a Linkiesta Paola Martinez, responsabile affari istituzionali territoriali di Open Fiber. «Ma il problema sono le aree meno popolate, non necessariamente il Sud. Anzi, sono proprio le regioni del Sud Italia a trainare la copertura della banda ultralarga. Basti pensare che è la Calabria, con il 71 per cento di copertura, a guidare una classifica chiusa dalla Valle d’Aosta ferma a quota 19,8 punti percentuali. Poi è indubbio che nel passaggio da realtà come Milano, Roma, Napoli, Palermo, Catania o Bari a un centro dell’entroterra pugliese possano esserci difficoltà di connessione».
Con la connessione ad alta velocità dovrà esserci il miglioramento dell’offerta nei servizi di base. Perché per poter lavorare da remoto, con soluzioni di lavoro agile, il computer e la connessione non bastano. Nemmeno se affiancati dalla retorica del buon clima, del sole, del mare e di tutto il resto.
Servono infrastrutture e occasioni di socialità: dagli asili nido alle mense scolastiche, da una buona Sanità di prossimità a un sistema di trasporti urbani e extraurbani collegato a dovere
Alcune proposte attualmente sul tavolo della politica le ha indicate Piercamillo Falasca, consigliere della ministra per il Sud e la Coesione territoriale Mara Carfagna: «Il Recovery sarà una grande fonte di finanziamento ma, in generale, stiamo dedicando attenzione ad alcune infrastrutture sociali indispensabili, gli asili nido in particolare. È partito qualche giorno fa un bando per i Comuni di 700 milioni di euro, prima parte di un bando più grande da oltre due miliardi, proprio per irrobustire la rete di asili nido. Su questo fronte siamo molto lontani dall’obiettivo europeo del 33 per cento di copertura, soglia indicata dall’Unione europea come sufficiente per servire la popolazione in età da lavoro».
Un altro vettore che può spingere verso soluzioni di southworking è l’aumento degli spazi di coworking, proprio come quelli creati a Castelbuono.
«Serviranno spazi dove svolgere riunioni, meeting ed eventi, indispensabili per uno smartworking efficiente, dato che lo smartworker non può lavorare da casa sempre e in ogni contesto. Ma in Italia è ancora poco diffusa la cultura dei cosiddetti third spaces: l’ultimo censimento effettuato conta in Italia poco più di 700 coworking, oltre il 60 per cento dei quali sono però situati nel Nord Italia (addirittura la sola Milano ospita più del 10 per cento di tutti quelli attivi a livello nazionale)», scrive Pwc Italia in un suo studio sullo smartworking.
Dal lato delle aziende, invece, i dubbi sulla possibilità di incentivare il lavoro agile per una fascia più ampia possibile di dipendenti riguardano la perdita di controllo sul dipendente, il necessario investimento da fare a carico dell’azienda e i problemi di sicurezza informatica (indagine Svimez-Politecnico di Milano).
Allora, per venire incontro alle richieste delle aziende, si potrebbero mettere in campo alcuni strumenti di policy mirati. Ad esempio: incentivi fiscali per le imprese del Centro Nord che attivano il southworking, riduzione dei contributi, credito di imposta una tantum per nuove postazioni attivate o estensione della diminuzione dell’Irap al Sud.
Più in generale, si potrebbe pensare di ritoccare la legge sullo smartworking, datata maggio 2017. Nell’ultimo anno si è rivelata uno strumento valido per tutti gli attori interessati, nel gestire il passaggio improvviso a nuove proporzioni tra lavoro in presenza e lavoro “smart” in un quadro di relativa certezza.
Ma si tratta di una legge nata in un momento in cui il lavoro agile rappresentava, come raccontano i numeri, un fenomeno ridotto: potrebbe quindi essere arrivato il momento di ridiscutere alcuni temi, ad esempio norme più dettagliate sul diritto alla disconnessione, sul welfare aziendale e sulle responsabilità legate a cybersecurity e data protection.
Il discorso del southworking, però, può essere considerato anche come parte di un quadro più ampio, in cui gli attori interessati non sono solo le aziende, i dipendenti e le loro famiglie. Mettere a sistema le energie, le istituzioni, la società civile e le imprese del Sud sarà un’occasione per ridiscutere la capacità di attrazione di aree del Paese che in termini di turismo hanno sempre un certo appeal, rispetto alle regioni del Nord e del Centro, ma anche per chi viene da fuori.
Nel suo articolo su Politico.eu, Stefania D’Ignoti citava il caso di un designer britannico di 53 anni, Paul Thompson, che ha detto di aver colto l’occasione per sfuggire alla Brexit per trasferirsi a Palermo non appena è stato allentato il primo lockdown alla fine della scorsa primavera.
La vera sfida del Sud Italia, dice Piercamillo Falasca è qui: «Si tratta di creare un’attrazione strutturale, fare in modo che diventi sistemica. Se la sfida del southworking va oltre la flessibilità degli orari e la smaterializzazione del lavoro, ma riguarda anche i servizi, allora l’attrazione non è solo per i giovani meridionali che lavorano fuori. È difficile immaginare di creare nel Mezzogiorno italiano, nei prossimi mesi, una Silicon Valley europea. Dobbiamo guardare anche ad altre categorie di persone».
Dopotutto il Mezzogiorno ha il potenziale per diventare un polo di attrazione per lavoratori stranieri che decidono di sfruttare lo smartworking trasferendosi in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Basilicata. O anche per anziani che decidano di godersi la pensione in uno di questi posti, anziché scegliere come meta il Portogallo, la Spagna o la Grecia.
«La competizione europea per attrarre nuovi residenti di tutte le età», conclude Falasca, «è una sfida che il Mezzogiorno può e deve intraprendere. Perché il brand Italia funziona per attrarre turisti, ma adesso dobbiamo concentrarci sull’attrazione di nuovi residenti. È un’opportunità e una sfida, una sfida che però al momento stiamo perdendo».