Nel momento esatto in cui il Consiglio europeo ha concesso all’Ucraina lo status di paese candidato sarebbero dovuti partire nel cielo i fuochi di artificio, ma in Ucraina sono proibiti e lo saranno ancora per tanto tempo perché ricordano il suono delle bombe che cadono sulle città del nostro paese, un paese che in questo momento sta per intraprendere un percorso complesso di riforme e di duro lavoro burocratico per diventare un membro a tutti gli effetti dell’Unione Europea.
Forse avremmo festeggiato con più ardore nel 2004, quando stavamo in piazza avvolti nelle bandiere arancioni timorosi di una nuova possibile cortina di ferro che sarebbe potuta crescere davanti ai nostri occhi giovani.
Forse avremmo festeggiato con più sentimento durante l’ultima settimana di novembre del 2013, quando siamo usciti in piazza avvolti nelle bandiere europee dopo che il presidente filorusso Viktor Yanukovych a Vilnius ha sospeso la firma dell’accordo dell’associazione con l’Unione Europea.
Forse quelle sono state le uniche due occasioni della nostra vita in cui avremmo potuto festeggiare senza poter pensare ad altro.
Invece la strada verso questo giorno si è fatta lunga e dolorosa. Non si trattava e non si tratta ancora adesso di scartoffie burocratiche, di etichette, di status. Si trattava e si tratta di valori, di dignità, di verità, di libertà.
Quante persone dignitose abbiamo perso e perderemo ancora prima di assicurarci che, grazie all’ingresso nell’Unione, non morirà più nessuno in difesa di valori semplici e sinceri che oggi proteggiamo con le armi nei campi di battaglia nel cuore di Europa.
Non sono armi simboliche quelle che usiamo per proteggerci, anche se valgono pure quelle. Sono armi di acciaio e di ghisa che salvano la vita dei soldati e dei civili ucraini per riuscire a provare in futuro, sulla propria pelle, che cosa effettivamente significa essere un membro della Comunità Europea.
La strada si è fatta lunga e dolorosa con lunghe ed estenuanti proteste a Majdan. Con la morte di cento manifestanti nel febbraio 2014, tra i quali Ustym Holodniuk, un giovane ragazzo di vent’anni con il casco blu. Con l’annessione della Crimea nel marzo del 2014, quando uno sfacciato e illegale referendum farsa ha negato il presente e il futuro a tante famiglie ucraine e prima di tutto a quelle dei tatari di Crimea, il popolo autoctono della penisola.
Con un altrettanto sfacciato ingresso delle truppe russe nel Donbas, con il pretesto dei convogli umanitari e altre scuse ancora meno velate. Con otto anni del nostro continuo «è una guerra della Russia all’Ucraina, non è una guerra civile», con gli appelli alla comunità europea a reagire, ad ascoltarci e a vedere. Con i soldati e i civili ucraini che hanno perso la vita nel Donbas, con due milioni di sfollati che hanno trovato una nuova casa a Bucha per poi dover fuggire di nuovo nel 2022, almeno quelli che sono riusciti a fuggire.
Con ormai quattro mesi di una guerra sanguinosa che ogni giorno porta via le vite di militari, di civili, di bambini e di giovani come Roman Ratushny, i quali avrebbero potuto e dovuto impegnarsi nella costruzione del paese a preparare le scartoffie, a eseguire le riforme, a viaggiare liberamente, a scambiarsi l’esperienza nelle istituzioni dell’Unione europea.
Invece ogni giorno perdiamo loro, i migliori, e diventiamo tutti più stanchi, più vecchi e più delusi.
L’Europa adesso ha fatto un gesto storico e simbolico per l’Ucraina e per la nostra lotta per la libertà. Ma scusateci se non possiamo festeggiare con il dovuto ardore. Ne abbiamo validi motivi.