Por favor no malgasten el agua. «Per favore non sprecate acqua». Anno 1995: il cartello, scritto a mano, è appoggiato sulla specchiera di un elegante hotel a 5 stelle a Granada, con vista sull’Alhambra.
Un invito semplice, spontaneo, naturale che anticipava di decenni l’attuale coscienza ecologica: oggi gli alberghi di rango espongono targhe ben più elaborate, stampate in serie e illustrate con cura, per spiegare agli ospiti come ridurre l’impatto ambientale evitando di lasciar scorrere l’acqua a vuoto e di gettare tra la biancheria da lavare gli asciugamani intonsi.
La consapevolezza dell’importanza dell’acqua nella capitale andalusa era frutto dell’esperienza concreta, del vivere in un clima difficile, secco, continentale, dove le piogge sono rare e le estati torride.
Quel giorno di agosto di 27 anni fa i 40 gradi di temperatura erano stati smorzati da una tormentilla momentanea, un «temporale passeggero», aveva spiegato qualcuno del posto: una sorta di diluvio improvviso, una “bomba d’acqua”, diremmo adesso, da cui tutto è lavato per poi ritornare uguale a prima. Anche il caldo. Una di quelle piogge che, abbiamo imparato in questi giorni, non servono a risolvere il problema della siccità.
Ma l’acqua a Granada non arriva dal cielo. Giunge dalle montagne e dalle fonti che alimentano da secoli gli splendidi giochi di zampilli, le vasche e le fontane che creano lo spettacolo unico e incantevole dell’Alhambra.
La cultura dell’acqua in Andalusia deriva dall’impronta lasciata dalla dominazione araba. Nel mondo arabo l’acqua aveva un valore immenso: l’aristocrazia araba come gli immigrati berberi provenivano da zone desertiche, in cui la difesa e la custodia dei pozzi era un imperativo assoluto.
Giunti nella penisola iberica all’inizio dell’VIII secolo, i nuovi conquistatori trovarono nelle zone costiere una disponibilità di acqua mai conosciuta: mantennero quindi in efficienza o ampliarono i sistemi di irrigazione esistenti e introdussero tecniche agricole più progredite in uso in Egitto o in Mesopotamia.
E intorno alle città, da Cordoba a Siviglia fino a Granada, fiorirono orti e giardini e si praticarono nuove colture, quella del riso, della canna da zucchero e persino delle banane. Arance, pesche, limoni e fragole vennero coltivate in modo intensivo con metodi più efficaci.
Del resto già i Romani importavano vino, grano, olio dalla Spagna e nelle città da loro fondate costruivano terme che poi gli Arabi ampliarono e resero magnifiche. E l’Alhambra a Granada è forse la maggiore espressione di questo culto dell’acqua: acqua come oro, acqua come ricchezza, acqua come bellezza, acqua come simbolo del paradiso.
Fortezza e palazzo, cittadella murata ed elegante dimora, l’Alhambra ammalia ancora oggi i turisti con la sua magnificenza. Dale limosna mujer, que no hay en la vida nada como la pena de ser ciego en Granada, «fagli l’elemosina, o donna, perché non c’è pena più grande che essere cieco a Granada», recitano i versi con cui Francisco de Icaza ha voluto celebrare la bellezza della “Cittadella rossa” e dei suoi giardini.
Siepi, prati, roseti realizzati per integrarsi in un insieme armonico con le architetture moresche, dove i colori e le forme delle pietre si ripetono nelle aiuole fiorite e l’acqua è il filo conduttore, l’anima, celebrata in ogni spazio. Noi ci limitiamo ad ammirare questo capolavoro, senza renderci conto del significato profondo di questa profusione di fiori e di colori. Senza capire quanto siamo fortunati ad avere tanta, tanta acqua a disposizione.
Nelle terre più aride della Spagna, nell’Extremadura come sulla Meseta, le opere di ingegneria idraulica hanno consentito di utilizzare e popolare terre altrimenti inospitali. Noi non ne abbiamo mai avuto bisogno. Nelle nostre case l’acqua scorre abbondante, e la diamo per scontata, ricordandoci quanto vale solo nei rari periodi di siccità. Non abbiamo mai conosciuto stupore e meraviglia di fronte a un dono della natura o di Dio.
Antoine de Saint-Exupéry racconta di una visita organizzata sulle Alpi Francesi per alcuni capi tribù provenienti dalle regioni sahariane: «la guida li aveva condotti di fronte a una cascata gigantesca, una specie di colonna tortile ruggente oltre le rocce. E aveva detto: “assaggiatela”. Era acqua dolce. Acqua! Quanti giorni avrebbero dovuto marciare del deserto per raggiungere la sorgente più vicina; e una volta arrivati, quanto avrebbero dovuto scavare, prima di vedere gorgogliare un liquido fangoso misto ad urina di cammello! Acqua! Una cosa che vale oro quanto pesa! Una cosa, la cui più piccola goccia avrebbe fatto scaturire da terra il verde scintillio di una lama d’erba! (…) “Non c’è altro da vedere – aveva detto la guida – andiamo”. “No, aspettiamo”. “Aspettiamo che cosa?”. “Che finisca”. Volevano attendere che Dio si stancasse della sua follia. Conoscevano un Dio facile a pentirsi, conoscevano un Dio avaro. “Ma quest’acqua precipita da migliaia di anni!”. Così, tornati a Port-Etienne non insistettero troppo sulla faccenda della cascata. Vi sono dei miracoli di cui è meglio tacere».
Salvo ricordarsene quando i raccolti bruciano sotto il sole e i sindaci minacciano di chiudere i rubinetti.