Per quasi trent’anni giudice della Corte suprema statunitense, Antonin Scalia (1936-2016) è stato tra i giuristi più noti e influenti al mondo. Così influente che secondo molti commentatori la sua impostazione e il suo pensiero sarebbero maggioritari all’interno dell’attuale Corte. Alla figura di Scalia è dedicato il nuovo libro dell’Istituto Bruno Leoni, scritto da Giuseppe Portonera e uscito nella collana dei Classici Contemporanei, agili monografie sui pensatori più significativi dei nostri giorni.
Antonin Scalia è stato uno dei giuristi più importanti della storia recente statunitense. Egli è noto al nostro pubblico nazionale, o quantomeno alla sezione di esso che sta all’incrocio fra giuristi interessati alla comparazione o alla teoria generale e cittadini appassionati di cose americane. Tuttavia, mentre in lingua italiana possono leggersi pregevoli studi sui metodi interpretativi che egli ha difeso per tutta la sua vita (originalismo e testualismo), sono state finora assenti biografie intellettuali del giudice statunitense presentate in forma monografica. Probabilmente anche per tale ragione, è diffuso l’equivoco che vuole Scalia come una sorta di difensore del conservatorismo politico: è indubbio che Scalia fosse politicamente un conservatore, ma da ciò non segue che l’originalismo e il testualismo siano metodi «politicamente» conservatori, come confermato dal fatto che diversi intellettuali americani, sia libertari che progressisti, si considerano originalisti e testualisti.
Scalia ha legato il proprio nome all’idea che le leggi, compresa la Costituzione, devono essere interpretate secondo il significato che un cittadino, al tempo della promulgazione, avrebbe assegnato al loro tenore letterale. Questa idea ha, come suo corollario, non la «mitizzazione» della legge, bensì il suo rovescio. Scalia non è come il Volonté protagonista del capolavoro di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), il quale vuole la legge «immutabile, scolpita nel tempo»; di contro, egli è perfettamente conscio del fatto che leggi, prodotto umano e storicamente condizionato, possono risultare, con il passare degli anni, non più in linea con il sentire sociale: tuttavia, ed è questo il nocciolo del suo pensiero, spetta al popolo – la cui volontà «originaria» è stata fissata nell’enunciato legislativo – farsi carico della responsabilità della riforma normativa. Come ha scritto in uno dei suoi ultimi e più appassionati dissents, «Permettere che [una] questione politica […] sia considerata e risolta da un gruppo ristretto, aristocratico, del tutto non rappresentativo, di nove individui significa violare un principio ancor più fondamentale del no taxation without representation: no social transformation without representation».
L’importanza di Scalia non è dovuta, però, soltanto all’elaborazione di una teoria. Egli non è stato solo, o principalmente, un uomo di pensiero, bensì uno di azione, come si conviene al giurista che opera non nelle aule universitarie, bensì in quelle giudiziarie. Proprio i trent’anni trascorsi alla Corte suprema gli hanno consentito di rendere «popolare» la sua judicial philosophy. Eppure, se è vero che essere stato primariamente giudice ha consentito a Scalia di difendere nel modo più efficace possibile la propria teoria, è altrettanto vero che ciò lo ha costretto alle volte a vivere al di sotto delle proprie aspettative, commettendo – consapevolmente o meno – «errori», ossia mancando in alcune occasioni di impiegare correttamente la propria metodologia «originalista» e «testualista». E Scalia è stato il primo a riconoscere la propria umana fallibilità, nonché le limitazioni della stessa judicial philosophy che ha difeso per tutta la sua vita.
Ciò appare, nel modo più chiaro possibile, in una certa ambivalenza che egli ha mostrato nei confronti di Brown v. Board of Education of Topeka, 347 U.S. 483 (1954), la celebre sentenza con cui la Corte suprema ha dichiarato incostituzionale la segregazione razziale. La giustificabilità del decisum di quella sentenza alla stregua del significato originario del XIV emendamento è dibattuta, eppure Scalia si è spinto ad affermare che, anche nel caso in cui si fosse dimostrato che il significato storico del XIV emendamento non avrebbe escluso l’illegittimità della segregazione, ciò non sarebbe stato sufficiente per fargli cambiare idea sulla necessità di essere un originalista. Questo non faceva di lui né un segregazionista, né un apologeta della Costituzione come originariamente redatta: per Scalia, al netto di certi principi «eterni» (su tutti, la separazione dei poteri), il resto della Costituzione si sarebbe potuto e dovuto cambiare nel caso in cui fosse entrato in tale rotta di collisione con gli orientamenti maggioritari da risultare intollerabile.
È indubbio che, a seconda dei punti di vista, la posizione di Scalia verrà intesa o come una filosofia
dell’umiltà o come un atteggiamento pilatesco. Senza avere l’ingenuità (o l’ipocrisia) di rimuovere completamente dal quadro il peso morale che grava sul giudice chiamato a compiere «scelte tragiche», il tratto di realismo che connota questa impostazione ha il pregio di renderla, ai nostri occhi, preferibile all’alternativa, ossia alla pretesa di un giudice «erculeo», non solo sempre in grado di compiere la scelta giusta, ma quasi unico soggetto, nel contesto istituzionale, in grado di farlo.
Per dirla con Alexander Bickel, se dovessimo avere a che fare «non con problemi di disuguaglianza e di ingiustizia sociale, ma con un colpo di stato, con un tentativo da parte di una maggioranza esaltata o di una potente élite, sciolta da altri vincoli, di proscrivere e mettere fuori legge uno o un altro gruppo, o di montare un assalto fondamentale contro un governo democratico», la speranza è che «i giudici possano richiamare alla ragione [questa] società lacerata». Ma questa speranza – questa estrema e tenue speranza – può valere in tempi eccezionali solo se, in tempi ordinari, l’ordine giudiziario rifiuti il «complesso del salvatore», agendo con cautela, umiltà e rispetto del progredire, libero e disordinato, delle forze sociali.