L’assemblea permanente dei grillini in stile settantasettino, nascosta in un bel palazzo al centro di Roma, in certi momenti si trasforma in un processo proletario contro i dissidenti che aumentano a ogni riunione e che, il più delle volte, sono parlamentari di prima nomina, redarguiti anche pesantemente dai “duri”, i vecchi capi, proprio come nei “Demoni” di Fëdor Dostoevskij – pur senza voler paragonare una figura tragicamente enorme come Stavrogin a quella borghese piccola piccola di Giuseppe Conte, un uomo che sta perdendo tutto e che continua a rilanciare senza avere più un soldo in tasca.
Già, per colpa dell’avvocato e dei suoi seguaci, il M5s si sta liquefacendo nella calura di luglio e nella propria immaturità umana e politica. Mario Draghi, da questo punto di vista, ha già vinto la partita. Ha distrutto i carrarmatini del Risiko che l’avvocato in delirio aveva piazzato contro il premier: i dadi della politica gli hanno dato torto. E il tavernacoliere “lo sfonnamo de brutto” è diventato un “semo stati sfonnati noi”.
Il problema, come in tutti i gruppi estremisti populisti stalinisti, è che chi dissente ha paura. Qualcuno ha parlato, altri se ne sono già andati, altri ancora (forse una trentina di parlamentari) prima di mercoledì lasceranno la cupa dimora dei Demoni di Giuseppi: il che fa dire che se quello statista di Luigi Di Maio non avesse rotto il giocattolo avrebbe potuto prendersi il Movimento e cacciarne Conte e le sue sorelle, dalla Raggi alla Taverna alla Lezzi, insieme a Rocco e i suoi fratelli.
Comunque vada a finire, Giuseppe Conte è il liquidatore testamentario del grillismo, il notaio che sta redigendone l’atto di morte: e non è impossibile che alla fine sia costretto a dimettersi, forse dalla politica tout court, e riapra lo studio legale. Conte sta perdendo la battaglia della vita, anche se Draghi dovesse lasciare: non vincerà in nessun collegio, e quanto potrà arraffare nel proporzionale? Nato per correre, il Movimento è fermo come un paracarro e le elezioni prima o poi lo confermeranno.
Il presidente del Consiglio lo ha dunque distrutto, in ogni caso. Il capolavoro pieno, certo, consisterebbe nel poter riprendere il cammino spezzato dall’avvocaticchio del populismo, una volta frantumatone il partito. Costringere Conte alla resa, o perlomeno strappargli il grosso dei parlamentari e andare avanti senza i contiani di stretta osservanza. Lo chiedono Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini. E adesso Draghi in effetti ha molte carte in mano.
In questi giorni ha incassato molteplici appelli ad andare avanti: internazionali, istituzionali, sociali. E ad alcuni di essi, specie quelli delle cancellerie occidentali, è quasi impossibile dire di no. Oggi, manifestazioni a Roma e a Milano. La spinta dei sindaci ha mandato su tutte le furie Giorgia Meloni, che tra l’altro non ha saputo suscitare nessun entusiasmo all’idea di andare subito alle urne. Il Paese vuole un governo e teme i contraccolpi di un vuoto di potere in un momento come questo.
Nel suo ritiro di Città della Pieve il presidente del Consiglio ha valutato tutto con freddezza. L’uomo, per dirla con un ministro di peso, ha una sua complessità d’ingegno e di spirito che nessuno, ma veramente nessuno, è in grado di dipanare. Da Mario Draghi ci si attende mercoledì in Senato un discorso alto, fermo, dignitoso: non robetta politicista. Altre 48 ore, per salvare il Paese dal caos allestito dai Demoni in rotta.