Draghi o Conte?Comunque andrà a finire, il Pd dovrà liberarsi della zavorra grillina

La crisi innescata dall’ex presidente del Consiglio ha sciolto gli ultimi dubbi nel partito di Letta. Restano ancora pochi affezionati alla vecchia idea del punto di riferimento fortissimo. Ma si tratta di una posizione minoritaria

di Mick Haupt, da Unsplash

Comunque vada a finire questa assurda crisi politica – tutto ma proprio tutto è nelle mani di Mario Draghi – il congresso del Pd è nei fatti iniziato. Lasciamo stare le formalità. La discussione è ormai esplicita e lo sarà sempre di più dopo la conclusione della crisi, tanto più se si dovesse giungere presto alle elezioni anticipate che in realtà qualcuno vorrebbe, proprio per evitare discussioni e conseguenze sul piano degli incarichi e delle candidature.

Il punto da cui partire è che il quadro politico è stato terremotato da una banda di politici improvvisati chiamati “contiani”, dal nome dell’apprendista stregone di questa fase, quel Giuseppe Conte che al Nazareno per tre anni è stato considerato una specie di “compagno”, uno che – come ha detto ieri in una riunione del coordinamento dem il redivivo thai Goffredo Bettini – «pone temi sociali», quindi incarnando naturaliter i panni dell’alleato di riferimento. Ma anche i sansepolcristi ponevano temi sociali e si è visto come andò a finire: la questione non è questa, ma quale piattaforma d’insieme si vuole proporre al Paese. La storia del Pd sta giungendo a uno spartiacque: la vecchia linea è morta ma una nuova stenta a nascere, parafrasando Gramsci, eppure anche Letta ammette che «è molto possibile che nelle prossime ore dovremo vivere un po’ di sconquassi, provocati da decisioni di altri che ci obbligheranno a fare delle scelte, anche in evoluzione rispetto a quello di cui abbiamo parlato fino ad oggi».

Eppure Bettini, al netto del suo afflato personale per l’avvocato del populismo, pur stando ben attento a non differenziarsi troppo dal segretario secondo un’antica regola proto-leninista, ha alluso alla tendenza “socialista” di Andrea Orlando e Peppe Provenzano che dà una risposta alla questione sociale classicamente di sinistra – statalismo sussidi tasse – dentro una logica classista e tendenzialmente antagonista.

In questo quadro di “landinismo politico” è chiaro che la sinistra Pd Conte non intende mollarlo perché ritiene che, sebbene non sia più “il punto di riferimento fortissimo dei progressisti”, pure è ancora lui il compagno di strada numero uno, anche qui nella antica logica del primato del Partito.

Secondo la corrente di sinistra, la mossa dell’avvocato di questi giorni dunque è certamente sbagliata ma in fondo può persino tornare utile se sarà in grado di spostare a sinistra l’asse dell’azione del nuovo governo Draghi in un autunno che si profila socialmente drammatico, ponendo così le premesse politiche per una campagna elettorale, che comunque ci sarà presto, molto sociale e antiliberista, se si può dir così: e Letta, forse anche suo malgrado, dovrebbe essere risucchiato in questo vortice disegnato da Orlando e Provenzano (e con una certa compiacenza tutta politicista di Dario Franceschini, sempre legato all’idea dell’asse elettorale con quel che resta del M5s).

Nella riunione di ieri, peraltro molto tranquilla e inevitabilmente distratta dall’emergenza-crisi, questa posizione non è parsa affatto maggioritaria, anzi. Molti hanno chiaro che con l’avvocato amico di Trump non si dovranno fare patti di sorta, e lo strappo con Draghi, anche ove dovesse ricucirsi, resterà come un affronto indelebile al più elementare senso dello Stato. Stefano Bonaccini, uno che non ha mai particolarmente amato i grillini preferendo di gran lunga i movimenti reali fuori dai partiti, sembra già essere il più esplicito in questa direzione.

Ma è chiaro che il grosso del partito (a quanto pare ci sono anche dei segnali inequivocabili della base) considera ormai i grillini-contiani un accidente della Storia, come direbbero i tomisti, una pagina da chiudere. Anche se non si capisce per aprire quale altra.

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