Tra le tante giustificazioni accampate da Giuseppe Conte per spiegare la scelta di non votare la fiducia al governo, le più interessanti sono quelle di carattere psicologico, ad esempio quando definisce il comportamento parlamentare del Movimento 5 stelle «una reazione alle umiliazioni subite» o quando chiede a Mario Draghi «rispetto dei nostri principi». Sfortunatamente per lui, questa è l’unica richiesta che non potrà essere esaudita in nessun caso.
Dopo tante chiacchiere, dopo tanto tempo perso appresso all’inceneritore di Roma, ai giochi di parole con cui si tentava di sabotare il sostegno all’Ucraina e infine ai fantomatici «nove punti», si torna al punto di partenza. Dopo aver costretto il resto del mondo a domandarsi se davvero il governo stesse per cadere a causa del cashback (punto cinque) o per la rateizzazione delle cartelle esattoriali (punto otto), per non parlare del punto sei: «No a nuove trivelle» (a dimostrazione del fatto che i cinquestelle hanno una sola faccia, ed è tosta), si torna all’umiliazione e al rispetto, cioè a Domenico De Masi e alle sue rivelazioni sul fatto che il presidente del Consiglio avrebbe chiesto a Beppe Grillo di liberarlo di Conte, giudicandolo «inadeguato».
E così, quello che prima era lasciato implicito e tutti fingevano di non vedere è stato finalmente illuminato come meritava. Fino a ieri, infatti, un sistema dell’informazione d’incommensurabile cinismo aveva ammannito all’opinione pubblica la favola del governo giallorosso capace di affrontare efficacemente la pandemia e di distinguersi in Europa, passando un minuto dopo la sua caduta a esaltare le prodezze di Draghi, che per primissima cosa, grazie al cielo, ha smontato l’intera impalcatura costruita da Conte per affrontare pandemia e la crisi economica, liquidando su due piedi il commissario Domenico Arcuri e riscrivendo contenuti e governance del Pnrr.
Le richieste sul cashback o sul superbonus non hanno quindi a che fare con il merito dei provvedimenti – su cui tutti, forse persino Conte, la pensano in cuor loro esattamente come Draghi – ma con il valore simbolico di quelle scelte. O meglio, con il valore simbolico che ha avuto la loro demolizione.
Di conseguenza, a Draghi viene ora da più parti la disperata richiesta di tornare sul palco per partecipare alla recita rispettando il copione e rassicurando il pubblico, prima che l’irrompere di troppe informazioni esatte ne comprometta definitivamente la sospensione d’incredulità.
Quel che si vuole dal presidente del Consiglio, in pratica, è che offra la sua autorevole testimonianza del fatto che il re è vestito di tutto punto, che dica chiaro e forte che il nuovo abito da statista europeo e progressista di Giuseppe Conte è bellissimo e che il governo giallorosso gli ha consegnato un’eredità coi fiocchi.
È una richiesta che non viene solo dai cinquestelle, ovviamente, ma dai tanti che hanno alimentato questa favola, in Parlamento, sui giornali e in tv: dagli alleati di governo del Pd e di Articolo uno come dai tanti intellettuali, opinionisti e cabarettisti che hanno già fatto tutte le parti in commedia, contiani con Conte e draghiani con Draghi, e non sanno più come cancellare le impronte.
Sarebbe meraviglioso se il presidente del Consiglio, come gesto di buona volontà, scegliesse di rispondere all’appello facendo propria la parola d’ordine con cui si può dire che il Movimento 5 stelle sia nato, l’8 settembre 2007, e con cui è giusto che sia salutato, da Draghi e da tutto il Paese.