Comunque vadaIl destino segnato del grillismo e l’incognita della legge elettorale

Che faccia cadere o meno il governo non importa: Giuseppe Conte è alla guida di un Movimento che non tira più negli scaffali del supermercato politico. Ed è un bene per il paese

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Comunque vada sarà un successo. Giuseppe Conte potrebbe prendere a prestito il titolo di una vecchia canzone (1998) del rapper italoromano Er Piotta come slogan della sua campagna elettorale già iniziata. L’illusione di avere ancora un futuro come leader di un Movimento che ha avuto le sue origini e la sua ragion d’essere nel  voto di protesta, del Grande Vaffa di Beppe Grillo. Lui non ne ha la tempra, il phisique du rôle. 

Tutto questo adesso non c’è più, nel senso che il prodotto grillino non tira sugli scaffali del supermercato politico. C’è ancora un sentimento diffuso di rottura da non sottovalutare nell’elettorato, che si traduce o nell’astensione, che corrode le fibre della democrazia, o nel consenso crescente riversato a destra nel partito di Giorgia Meloni. 

Il Movimento 5 stelle è come quei prodotti scaduti che comprano ancora gli affezionati, e che può galleggiare soltanto se alza la voce garrula o esce dal governo. Il che, in quest’ultimo caso, sarebbe un bene di chiarezza.

Nessuno crede che una crisi di governo porterebbe automaticamente a elezioni in autunno. Intanto una maggioranza per andare avanti ci sarebbe. E andare avanti è necessario, esiziale per il Paese che deve cominciare a mettere le prime pietre delle opere previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. 

Non siamo più alla fase delle riforme che ci sono state chieste dall’Europa e ha fatto arrivare decine di miliardi. Siamo ora alla fase di realizzazione di infrastrutture per modernizzare il Paese, con tutto ciò che ne consegue in termini di occupazione. E dio solo sa quanto questo sia vitale in questa fase in bilico tra inflazione, recessione, costi dell’energia, guerra in Ucraina. 

Quindi, c’è poco da scherzare. Sarebbe ridicolo mandare a casa Mario Draghi in questo scorcio finale dì legislatura. Sarebbe tafazzismo puro. Dunque, lasciamolo credere a Giuseppe Conte e Marco Travaglio che comunque vada sarà un successo. 

Certo, un piccolo risultato il M5S lo otterrebbe se questo Parlamento facesse una riforma elettorale proporzionale. Si darebbe ai grillini la chance di eleggere una pattuglia parlamentare rumorosa e di svincolarsi dalle trattative con il Partito democratico per i collegi uninominali. In ogni caso sarebbe un bene per tutti: un sistema elettorale proporzionale avrebbe il dono della chiarezza, liberando i partiti dalla camicia di forza di alleanze innaturali e dalla vita breve. Sempre che Enrico Letta e, più esplicitamente, Dario Franceschini siano conseguenti alle loro dichiarazioni: se Conte rompe è finita. Rimarrebbe loro la palla al piede di Luigi Di Maio peripatetico, che di aristotelico ha poco. Somiglia più che altro a Totò cerca casa. Anzi, per dirla con Carla Calenda, in cerca di un ufficio di collocamento, ricettacolo di tutti i trasformismi. 

Allora, ricapitolando, la rottura di Conte (tutta da verificare) potrebbe essere perfino un bene se Draghi avrà la maggioranza per andare avanti. Dico Draghi perché con l’uscita dal governo dei rappresentanti grillini ci sarà bisogno di un giro istituzionale al Quirinale: un Draghi bis che consentirà di fare la finanziaria, affrontare la bufera economica e forse le trattative per chiudere un capitolo dello scontro armato in Ucraina (chissà quante altri capitoli ci saranno!). 

Dopodiché bisognerà vedere come si comporterà Matteo Salvini. Nella Lega ci sono ben altri problemi con il bocciano Giancarlo Giorgetti che dà lezioni a quelli della Scuola Radio Elettra che voglio lasciare il governo. 

Il punto qui è capire cosa resta del fronte cosiddetto progressista, il fu campo largo cosparso di crisantemi. Il proporzionale aiuterebbe molto ma per il momento Salvini non ne ha voglia, Silvio Berlusconi segue come l’intendenza, visto che non dà segnali di affrancamento dal centrodestra e dalla Lega in particolare. C’è tempo. Se ne parlerà in autunno o all’inizio prossimo anno quando le guerre fratricide per l’assegnazione dei collegi uninominali infiammeranno tutti gli accampamenti politici. 

Se invece, malauguratamente, dovessero restare il Rosatellum e le odiose liste bloccate in mano ai segretari dei partiti, bisognerebbe fare di necessità virtù. Ovvero trovare una coalizione in cui il Pd non guardi più ai Cinquestelle, che a quel punto sarebbero fuori gioco, persi per altri lidi. Il dialogo dovrebbe aprirsi con quel magma che passa con il termine riduttivo Centro. Meglio Terzo Polo. E qui continuano i dolori. Il sindaco Giuseppe Sala pensa di fare il federatore tra Di Maio, Calenda, Emma Bonino, Matteo Renzi. Sarebbe una accozzaglia poco credibile. Ma il ministro degli Esteri una collocazione la cerca e allora gliela garantisca Letta nelle sue liste, se vuole. 

Per il resto rimane sempre l’esigenza di un’intesa in un’area liberal-democratica, europeista e anti-russa, un disarmo, una tregua ragionata e leale. Altrimenti si uscirà dal populismo, che ha vinto nel 2018, e si entrerà nel 2023 nel sovranismo. Così tutti coloro che tentenna avranno il tempo di mangiare pop corn seduti comodamente sul divano di fronte alla tv per seguire il giuramento dei ministri di centrodestra. 

Magari sarà l’occasione amara e tardiva per quell’esame di coscienza di cui parla Marco Follini sulla Stampa e di pensare al vuoto non colmato lasciato dal populismo. È questo che si vuole? Follini ne sa qualcosa. È stato il leader democristiano dell’Udc che per primo ha dato veramente filo da torcere a Berlusconi, quando il Cavaliere era all’apice del suo potere e interpretava il primo vero populismo di massa del dopoguerra. Il governo Renzi provò a riempire quel vuoto ma venne abbattuto, tra i tanti avversari politici e caratteriali, anche dal fuoco amico. 

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