Giuseppe Conte ieri è stato un pusillanime, uno che ha mostrato di non avere il coraggio di essere conseguente: vai lì a Palazzo Chigi con un corposo elenco di richieste, fai sapere a tutto il mondo che stavolta fai sul serio e poi per l’ennesima volta esci con un pugno di mosche in mano e poi dici ai tuoi sbandati deputati di votare la fiducia al governo sul testo del contestato decreto Aiuti così come uscito dalla Commissione.
È ormai come quell’antico personaggio romano che si chiamava er Cacini, che faceva lo sbruffone senza mai ottenere niente: «Ma chi sei, er Cacini?», lo dicono ancora i vecchi romani per smontare l’arroganza di certuni. È andato da Mario Draghi con l’aria del Robin Hood, come se il presidente del Consiglio ignorasse che c’è la serissima questione dell’inflazione che minaccia lavoratori e imprese, ma non solo, dentro i cahiers des doléances ci ha messo di tutto – «abbondandis in abbondandum» (Totò) -, almeno Fausto Bertinotti chiedeva una cosa alla volta e neppure a lui è andata tanto bene.
Il risultato della messinscena di questi giorni è che ormai Conte-Cacini è destestato dal governo, aborrito dal Partito democratico, non più in asse nemmeno con il compagno di merende Matteo Salvini che lo accusa tramite i suoi di fare i capricci.
I residuali governisti del Movimento non se ne fidano più, i duri lo considerano un vigliacco. Sentite il ruggito di Alessandro Di Battista: «Anche oggi escono dal governo domani. Magari usciranno dopo l’estate, quando i parlamentari avranno maturato la pensione. Magari uscirà dopo la finanziaria, momento d’oro per chi è alla ricerca di denari da trasformare in markette elettorali. O forse non uscirà mai. Intanto anche i più irriducibili sostenitori del Movimento, gli ultimi giapponesi direi, si domandano come sia stato possibile ridurre la più grande forza politica del Paese nella succursale della pavidità e dell’autolesionismo».
Al di là della foga pazzoide di Dibba, questo è il punto. Lo avevamo scritto: Conte come fa sbaglia, inevitabilmente ogni sua scelta scontenta una delle due parti della carcassa pentastellata. E se oggi la sfanga con una figuraccia personale certamente domani il problema di come stare nel governo si ripresenterà pari pari e non sarà facile all’avvocato della provincia di Foggia inventarsi chissà quali abracadabra per tenere uniti gruppi parlamentari pieni di matti e per giunta spaccati, mentre da fuori la sirena di un attivissimo Luigi Di Maio (che ieri ha visto Beppe Sala) potrebbe ammaliare altri contiani.
Siamo sicuri che Giuseppi riuscirà a reggere questa situazione, che non sia costretto a dimettersi? Tutto è possibile. Quel che è certo è che il Movimento sta imboccando definitivamente la porta d’uscita del palcoscenico della politica, tra poco tempo potrebbe trovarsi senza nemmeno uno straccio di leader e i topi lasceranno la nave che affonda in cerca di un posto al sole da qualche altra parte.
Draghi va avanti reggendo il timone del Paese ma in quadro politico-parlamentare da terzo mondo, e meno male che c’è lui a salvare la baracca. Dopo questo governo per Enrico Letta non ce ne sarà un altro. Niente giochetti. E tuttavia il Nazareno si trova senza alleati: poteva pensarci prima invece di perdere tre anni appresso all’avvocato del populismo. Per questo, giustamente, il Pd ora punta tutto su SuperMario, mentre il pallone gonfiato del Movimento 5 stelle si va sgonfiando, e per sempre.