Il Movimento Cinque stelle, il più grande partito morente – avrebbe detto Ennio Flaiano – ora sta estenuando persino il Pd, cioè il partito che a onta di tutto gli ha praticato spesso e volentieri una prolungata respirazione bocca a bocca, ne ha costruito l’immagine di alleato progressista, malgrado l’asse con Matteo Salvini, ne ha sopportato intemperanze, come la salita sui tetti di Montecitorio, e follie antidemocratiche, tipo il taglio dei parlamentari. Ma la minaccia di un Giuseppe Conte di lasciare il governo ha finalmente interrotto il feeling tra i due partiti e, dopo l’imbarazzante silenzio di Enrico Letta, è toccato al “duro” della ditta, Dario Franceschini, mettere nero su bianco che se l’avvocato ex del popolo esce dal governo può dire addio all’alleanza elettorale.
È la pistola che il Pd ha sul tavolo, l’ultima minaccia che può far cambiare idea a Giuseppi, ammesso e non concesso che egli davvero voglia uscire dal governo (quanti suoi penultimatum abbiamo visto, e tutti finiti in una bolla di sapone?) e “Dario”, da vero professionista della politica come poker, ha capito che il capo del Movimento non ha niente in mano. Lo vedremo oggi, quando l’ex premier incontrerà il suo successore a palazzo Chigi.
Certo, l’impressione molto casalinesca è che il legale della provincia di Foggia sembri uno pronto a tutto. Come il Ray Milland di “Giorni perduti”, uno dei grandi capolavori di Billy Wilder, che vagava per New York alla disperata ricerca di un po’ di whisky, così Peppe Conte si aggira tra il fortino M5s di Campo Marzio e Palazzo Chigi per escogitare il modo in cui salvare le penne in una temperie politica che lo vede crollare nei sondaggi e nei voti veri, abbandonato dai fan di Luigi Di Maio (en passant, osannato nel ricevimento americano di Villa Taverna, altro che Giuseppi), surclassato da Mario Draghi sulla scena internazionale, e ora appunto trattato come un ragazzino da quegli stessi del Nazareno che lo idolatravano come “punto di riferimento fortissimo dei progressisti”.
Quello degli ultimi giorni è il ritratto di un uomo che sta perdendo la ragione e che ha scelto di “giocarsi la vita a testa o croce” (e questo è George Raft in “A qualcuno piace caldo”, sempre Billy Wilder), ponendo condizioni ultimative al presidente del Consiglio tra le quali il “no” al termovalorizzatore di Roma, uno strumento indispensabile per salvare la Capitale invasa di nuovo dalla mondezza in questo imprevisto ritorno del “raggismo” in salsa gualtieriana.
Poi chiede, l’avvocato di Volturara Appula, di non toccare il superbonus sull’edilizia che vede Mario Draghi contrarissimo – sembra una provocazione – e ovviamente, già che c’è, il salario minimo eccetera eccetera, mentre non si è capito se porrà anche la questione del nuovo invio di armi all’Ucraina: ma, per come l’ha presa sui denti l’ultima volta in Parlamento, forse avrà pensato che non è il caso di insistere su questo punto.
Nel merito, starà a Mario Draghi trovare i giusti compromessi – di ultimatum nella storia repubblicana se ne sono visti di ben più pesanti – ma è evidente che la questione è chiaramente politica ed è fin troppo semplice da spiegare. Draghi ha detto che non è disposto a guidare un governo con una maggioranza più ristretta di questa per la buona ragione – aggiungiamo noi – che egli intende restare fedele al mandato conferitogli da Sergio Mattarella, quello di guidare, appunto, un governo di larga convergenza se non proprio di unità nazionale.
Quindi, se Conte uscisse Draghi un minuto dopo salirebbe al Quirinale. L’esito finale sarebbe quello delle elezioni anticipate. Che per il M5s sarebbero drammatiche, ma l’avvocato pensa di essere ancora una star come Gloria Swanson in “Viale del tramonto” e Casalino sta allestendo l’illusorio set per l’ultima tragica scena. E tutto questo per il termovalorizzatore di Roma, nemmeno Fausto Bertinotti arrivava a tanto.
I contiani e il gruppo giornalistico-intellettual- accademico-twittereccio ha già in mente un rovesciamento della frittata: visto che i numeri del governo ci sarebbero anche senza il M5s, sarebbe Draghi il responsabile di una crisi senza sbocco. Lo odiano, il premier, ma chiederanno che resti. Bugiardi peggio di Barbara Stanwyck nella “Fiamma del peccato” (sempre Wilder).
Se si andasse al voto, dunque, niente alleanza Pd-5s: una novità enorme. E Carlo Calenda già ipotizza che in caso di elezioni «sarà evidente che l’unico modo per salvare questo Paese sia presentarsi alle elezioni con un Fronte Repubblicano che comprenda tutti i partiti che in Europa governano insieme, chiudendo così la stagione del bipopulismo e emarginando sovranisti e populisti».
Forse è troppo presto, ma la proposta resta agli atti. Tra l’altro, la distruzione del quadro politico porterebbe a una radicalizzazione del M5s in senso dibattistiano: e allora perché non consegnare il partito direttamente all’ex falegname guevarista? Sarebbe un altro trionfo dell’avvocato che, rispetto al “duro” del primo grillismo, fa ridere come Walter Matthau in “Prima pagina”.
Ricapitolando, forse è meglio se Giuseppi lascia perdere i suoi propositi sfascisti, mantenendosi ovviamente libero di tenere le sue posizioni di merito ma senza il peso storico di trascinare l’Italia alle urne. Non c’è altra strada per Conte se non quella di rientrare nei ranghi. Perché, esattamente come Kirk Douglas in un altro gran film di Wilder, l’“asso nella manica” lui non ce l’ha.