La carica dei 101 erroriLa piaga esterofila dei pet store e altri forestierismi poco wow

Nell’Italia delle aberrazioni linguistiche continuiamo a usare dosi di parole straniere decontestualizzate. Ma perché sostituiamo con il corrispettivo inglese (o francese) vocaboli radicati nel nostro lessico e dal significato ben definito, quasi banali, d’uso comune?

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“Pet store, pet stories” è lo slogan di una catena di negozi per animali domestici. No, non siamo in America o nel Regno Unito, siamo nell’Italia delle aberrazioni linguistiche. Concludere un messaggio pubblicitario con una – perlopiù incomprensibile, generalmente cretina – formuletta in una lingua straniera (francese nel caso di un profumo o di un cosmetico, occasionalmente tedesca nel caso di un marchio automobilistico, inglese negli altri casi) può avere un senso quando si tratta di un prodotto di lusso o di apprezzabile contenuto tecnologico e comunque destinato al mercato internazionale, perché appunto dà un’idea di internazionalità. Ma quando si tratta di cani e gatti…

Il problema però non è soltanto dei pet stores, e non è limitato ai messaggi pubblicitari. In ogni angolo della Penisola-e-isole-comprese, là dove c’erano negozi, negozi di catena, negozi all’ingrosso, magazzini, o al limite punti vendita, ora ci sono stores. Dove c’erano animali domestici ora ci sono pets, e dove c’era cibo per animali domestici ora c’è il pet food. La cosa preoccupante è che questo food (beninteso, il significante) non è solo riservato ai pets, ma anche e soprattutto agli esseri umani: c’è lo street food, il finger food, più in generale c’è un’intera economia (e a dirla tutta un delirio collettivo, come spesso si riscontra nelle epoche di decadenza: si pensi alla crapula del basso impero romano) che gravita intorno al food, anziché intorno al cibo, alla nutrizione, all’alimentazione, alla ristorazione. E sempre inesorabilmente al food (oltre che al wine), anziché alla cucina, alla culinaria o alla gastronomia (e all’enologia), sono consacrati libri, riviste, trasmissioni televisive, podcast, siti internet. Può darsi che in questa parola si avverta una potenzialità inclusiva atta a ricomprendere le diverse categorie della medesima area semantica; ma a ben vedere la stessa ampiezza di contenuti è insita nella corrispondente parola italiana: perché non usare “cibo” al posto di quel petulante monosillabo inglese a cui basterebbe cambiare la d in t per assestare metaforicamente il meritato contrappasso a chi si riempie la bocca di food?

Non è il caso, ovviamente, di rispolverare l’autarchia linguistica del Ventennio, che ha regalato perle come “sciampagna” per champagne (oggi sciampagna sopravvive unicamente nel nome di una linea di prodotti per l’igiene personale e della casa) o “mescita” per bar, “arzente” per cognac e (no, qui è da sbellicarsi) “bevanda arlecchina” per cocktail; per non dire dei toponimi italianizzati, uno per tutti Courmayeur (in)dimenticabilmente trasformato in Cormaiore. Le lingue da sempre si contaminano e si arricchiscono a vicenda, alcuni vocaboli transitano tali e quali dall’una all’altra, altri col tempo si adattano alla morfologia e alla pronuncia locali. 

In passato è stato soprattutto il francese a alimentare il nostro lessico: parole o espressioni come boutique, atelier, gilet, manicure e pedicure, chignon, collant, gaffe, vol-au-vent, moquette, carillon, prêt-à-porter, chic, biberon, aplomb, routine, roulotte, tournée, mèche, bricolage, peluche, gourmet sono ormai sentite come nostre, qualche volta alternandosi con vocaboli italiani dello stesso significato, più spesso integrando la mancanza di una traduzione adeguata. Oggi, in un mondo dominato dalla cultura anglosassone, è in gran parte la lingua inglese a riversarsi nella nostra. Nessuno saprebbe rinunciare a parole come weekend, teenager, privacy, marketing, merchandising, leader, boss, escalation, record, stress, sexy, test, scoop, design, comfort, in qualche caso non ne avvertiamo neppure l’origine straniera: coniate o entrate in circolo in diversi contesti linguistici, figlie di un’altra cultura, altre abitudini e stili di vita, posseggono una pregnanza non riproducibile nell’italiano.

Hanno invece un preciso corrispondente nel nostro vocabolario, dove però sono stati accolti con un’accezione particolare non esprimibile dalla semplice traduzione, altri termini inglesi come pride, che vuol dire orgoglio ma scritto con l’iniziale maiuscola indica l’annuale parata dell’orgoglio Lgbtqia+; fake che in quanto aggettivo significa falso ma in quanto sostantivo è internazionalmente riconosciuto, in particolare nel web, come notizia inventata o profilo contraffatto; audience con cui si intende il pubblico ma nell’uso corrente italiano è specificamente l’insieme degli spettatori o degli ascoltatori di una rete o di un programma radiotelevisivo; benefit che è genericamente traducibile come beneficio ma nel “bel paese dove il sì suona” indica più specificamente quelle indennità in natura che si aggiungono alla retribuzione ordinaria. E, citando alla rinfusa, fanno parte del nostro lessico quotidiano gangster, staff, shopping, selfie, intelligence, mainstream, outlet, part-time, partner, fitness, performance e performer, suspense, brainstorming, per cui non è necessaria né consigliabile una traduzione.

Così come non lo è quando si ha che fare con il lessico tecnico dell’informatica e dei social, a partire da computer (a meno di voler emulare lo sciovinismo linguistico dei francesi, che l’hanno fatto diventare ordinateur), per proseguire con mouse, online, login, logout, default, upgrade, wireless, provider, user ecc. Alcuni termini sono alla base di neologismi italiani un po’ raffazzonati: scanner ha originato diverse forme verbali, da “scannerare” a “scannerizzare” al più elegante “scansionare”, fino al granguignolesco “scannare”, da download e upload sono derivati i terribili verbi “downloadare” e “uploadare”, da link “linkare”, da reset “resettare”, da format “formattare”, da chat “chattare”, da like (orrore!) “likeare” e (doppio orrore!) “laicare”, mentre fare login ha trovato un sinonimo in “logare” (o “loggare”) e escludere un utente della rete da una chat o da un forum (to ban) ha dato luogo a “bannare”. Alcuni anglicismi sopravvivono nella terminologia del calcio, com’è naturale dato che questo gioco è arrivato a fine Ottocento da Oltremanica, convivendo con i corrispettivi italiani: football, match, goal (italianizzato in gol), corner, supporter, fan, offside, stopper (rimasto tale e quale), pressing (idem). Mentre sono scomparse parole in auge agli albori, come goalkeeper (portiere), center forward (centravanti), referee (arbitro), oltre al francese pelouse (letteralmente prato, ossia il campo da gioco).

Tutto questo excursus per dire che va bene immettere vivificanti dosi di forestierismi nella nostra lingua – come del resto in ogni lingua – quando corrispondono a elementi situazionali in origine estranei all’italico contesto. Ma perché sostituire con il corrispettivo inglese vocaboli radicati nel lessico italiano e dal significato ben definito – vocaboli normali, quasi banali, d’uso comune in tutto il mondo? Store, food, pet, ma anche green, cash, news, cult, wellness, outfit, workshop, location, device, global warming, underwear – e si potrebbe proseguire. Per non parlare dell’incontinenza politico-istituzionale che ha moltiplicato espressioni quali question time, cashback, stepchild adoption, revenge porn, caregiver, da cui lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi, notorio poliglotta, si è cautamente dissociato (cfr. Ugo Cardinale, Storie di parole nuove. Neologie e neologismi nell’Italia che cambia, il Mulino 2021, p. 38).

Ma dove l’omologazione ai modelli angloamericani si rivela disarmante è nell’adozione delle voci onomatopeiche orecchiate da film e serie televisive: chi mai avrebbe esclamato uàu prima di Happy days e produzioni consorelle? Come (forse non) tutti sanno, uàu è la pronuncia di wow, una onomatopea familiare ai lettori di fumetti. Allo stesso modo di molte altre, pappagallate con effetti tra l’imbarazzante e il grottesco: il mumble che compare spesso nella nuvoletta sopra la testa dello zio Paperone quando gira in tondo scavando un piccolo fossato indica il rimuginare e si pronuncia (non potendo ricorrere all’alfabeto fonetico ci accontenteremo di un’approssimazione) “mambl”; gulp è la forma grafica per rendere il suono emesso quando si deglutisce, in questo caso per la meraviglia, e si pronuncia “galp”; slurp (slöp) è il rumore prodotto quando si mangia qualcosa con gusto; grunt (“grant”), propriamente grugnito, esprime rabbia delusa; argh (“aa”, “a[r]g”) dà l’idea del disappunto e del dolore; gasp (“gasp”, “gæsp”) quella del boccheggiare per l’affanno o lo stupore; sigh (“saih”) è un sospiro lacrimoso; sob (“sab” o anche “sob”) un sospiro di dispiacere; smack (“smäk”) lo schiocco del bacio. 

Si tratta di interiezioni che suggeriscono acusticamente determinate azioni o reazioni emotive, e hanno un senso nel sistema fonologico angloamericano. Ma nel nostro? Nondimeno fioriscono – qualche volta con ironia, in genere con enfasi, comunque rigorosamente pronunciate come si scrivono, quindi perdendo il loro originario valore acustico-mimetico – sulle labbra garrule dei connazionali che amano autorappresentarsi come personaggi di una vita spericolata “stars and strips”. Per fortuna, tra le onomatopee nostrane, resistono (per ora) le insopprimibilmente spontanee ahi e ahia: verrà il giorno in cui battendo contro uno spigolo proromperemo in sonori auch e ouch?