La Macedonia del Nord è più vicina all’ingresso nell’Unione europea, ma non tutti i suoi abitanti ne sono soddisfatti. L’apertura dei negoziati di adesione per il Paese balcanico, insieme all’Albania, arriva dopo la firma di un protocollo d’intesa tra il governo macedone e quello bulgaro, che manteneva bloccato l’intero processo. I termini dell’accordo richiedono però un cambio costituzionale e sono giudicati, da molti, umilianti: mentre a Bruxelles sono già partite le trattative, con il primo incontro fra le squadre negoziali, a Skopje resta il malcontento.
Il veto sospeso
Il governo macedone chiese di entrare nell’Unione europea nel 2004 e ottenne l’anno successivo lo status di Paese candidato, lo stesso concesso di recente a Ucraina e Moldavia. Ma finora non era mai stato compiuto il passo successivo: l’inizio dei negoziati di adesione, per cui è necessaria l’approvazione di tutti gli Stati membri dell’Unione.
Inizialmente fu la Grecia a sbarrare il passo, costringendo perfino la Macedonia a cambiare nome in Macedonia del Nord, nel 2018: i greci considerano infatti il toponimo una regione del loro Paese. L’anno successivo tre Stati, tra cui la Francia, si opposero al volere degli altri 25, fermando l’avvio delle trattative.
Nell’ultimo Consiglio europeo, a giugno 2022, fra i 27, soltanto la Bulgaria si disse contraria, a causa di una disputa bilaterale. Si tratta in sostanza di una querelle storica dai risvolti identitari, come evidenzia un’analisi del think tank European Stability Initiative (Esi), che ha notevolmente rallentato l’iter ed è stata superata solo al prezzo di un discusso compromesso.
Nell’ottobre 2019 il governo bulgaro, guidato dall’allora primo ministro Boyko Borisov, pose le sue condizioni per accettare l’inizio dei negoziati. Serve una una profonda revisione del passato comune: una commissione storiografica congiunta dovrebbe stabilire che la popolazione macedone discende da quella bulgara e che dopo la Seconda guerra mondiale ha subito un processo di decostruzione della propria identità, sostenuta da una robusta narrativa anti-bulgara.
Questa operazione di nation building sarebbe stata promossa dalla Jugoslavia di Tito con la costituzione di una Repubblica Socialista di Macedonia all’interno della federazione jugoslava. Lo stesso discorso, secondo i bulgari, va applicato alla lingua macedone, semplicemente una variante della propria.
Questo «errore» di interpretazione storica andrebbe corretto con una nuova versione del passato comune, da presentare al pubblico e insegnare nelle scuole macedoni. Le richieste bulgare furono inserite nel 2021 in un protocollo bilaterale in sei punti.
Il documento, non reso pubblico, è stato visionato dal team di esperti dell’area balcanica Birn. Conteneva il riconoscimento di una minoranza bulgara sul territorio macedone (circa 120mila persone, rivendica il governo di Sofia), la lotta a un presunto hate speech anti-bulgaro, l’ammissione di radici etniche comuni e perfino l’identità del rivoluzionario anti-ottomano Goce Delcev, che sia bulgari sia macedoni considerano il proprio eroe nazionale. Tutte questioni molto spinose per l’opinione pubblica, e di conseguenza per le autorità, della Macedonia del Nord.
Un accordo definitivo è stato raggiunto soltanto domenica 17 luglio con la firma dei ministri degli Esteri dei due Paesi su un testo definitivo del protocollo. L’impasse è stata sbloccata dall’intervento della Francia, che fino a fine giugno deteneva la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue.
Una proposta di compromesso stilata dal governo di Parigi è stata approvata prima dal parlamento di Sofia e poi, con molta più resistenza, da quello di Skopje. Prevede tra le altre cose una modifica alla costituzione macedone proprio per garantire riconoscimento e diritti alla minoranza bulgara. Per l’esperto di Europa sud-orientale dell’Esi, Gerald Knaus, si tratta si una «resa alle richieste bulgare, leggermente camuffata»: il patto sancito dal protocollo pende decisamente dalla parte della Bulgaria, che del resto ha il coltello dalla parte del manico con il diritto di veto sul percorso di adesione della controparte.
Reazioni contrastanti
Forse proprio per questo la «proposta francese» non ha accontentato buona parte della politica e della popolazione della Macedonia del Nord, cosa che rischia di minare il percorso del Paese verso l’Unione.
Il parlamento macedone l’ha approvata il 16 luglio, ma si è spaccato: 68 deputati su 120 hanno votato a favore, gli altri si sono astenuti e molti dei contrari sono usciti dall’aula per protesta al momento del voto. All’entusiasmo del Presidente del governo, il socialista Dimitar Kovacevski, per l’apertura dei negoziati dopo «17 anni in sala d’attesa» fanno da contraltare la freddezza, o l’aperta contestazione di altri politici macedoni.
Due esponenti della maggioranza di governo non hanno sostenuto la proposta, mentre si sono schierati contro sia la sinistra di Levica, sia la destra nazionalista del Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone (Vmro-Dpmne).
Il suo leader Hristijan Mickoski ha promesso battaglia: non un dettaglio, visto che si tratta della prima forza politica per numero di parlamentari e che per il cambio costituzionale previsto dal protocollo d’intesa serve il benestare dei due terzi del Parlamento. «Non succederà mai. Tutti i nostri eletti hanno sottoscritto un patto validato da un notaio in cui escludono di supportare la modifica della costituzione».
L’avversione di alcune forze politiche cavalca e risponde a un sentimento piuttosto diffuso in Macedonia del Nord. Prova ne sono le numerose proteste di piazza tenute a Skopje a cavallo del voto, in concomitanza con le visite della presidente della Commissione Ursula von der Leyen e del Consiglio europeo Charles Michel.
I manifestanti hanno espresso la necessità di tutelare l’identità macedone, a loro dire messa in pericolo dalle condizioni imposte dalla Bulgaria. Per entrare nell’Unione – è il messaggio – non siamo disposti a rinunciare alla nostra lingua e cultura.
Non sembra casuale allora la scelta delle parole in un passaggio del discorso con cui von der Leyen ha annunciato l’inizio dei negoziati: un accordo sulla dislocazione degli agenti di Frontex, che forma parte della cooperazione tra Macedonia del Nord e Unione Europea, verrà «tradotto in lingua macedone, senza asterischi o note a piè di pagina, sullo stesso piano delle altre 24 lingue ufficiali dell’Ue». Quasi una stoccata a chi considera il macedone un dialetto del bulgaro.
Sia la Commissione che il Parlamento, del resto, hanno caldeggiato in questi anni l’inizio dei negoziati e anche gli altri 26 Stati hanno di recente mostrato fastidio per il prolungato ostracismo bulgaro. Nell’ultimo Consiglio europeo, da fonti diplomatiche era emerso grande fastidio perché una disputa bilaterale manteneva bloccato un processo che riguarda invece tutta l’Unione.
L’inizio dei negoziati segna ora un punto di svolta, ma il percorso per l’adesione si annuncia lungo e soprattutto condizionato a quanto avverrà in Macedonia del Nord, dove l’esito del processo di revisione costituzionale non è scontato.
A livello nazionale, intanto, lo stallo pluriennale prima e le rigide condizioni richieste adesso potrebbero minare la volontà di un popolo tendenzialmente europeista, o perlomeno accrescerne lo scetticismo. L’ultima ricerca dell’Institute for Democracy, relativa a dati raccolti nel 2021, segnala che più di due terzi dei macedoni sono favorevoli all’ingresso nell’Unione. Circa un terzo degli intervistati, invece, ritiene che ciò non accadrà mai. A Bruxelles e a Skopje si lavora per farli ricredere.