Adesso al Nazareno ci saranno le lunghe riunioni sui “criteri” per le liste per le elezioni del 25 settembre, una delle cose in assoluto più defatiganti per chi vi partecipa, un trionfo di acqua minerale e maniche arrotolate e bloc notes con nomi a matita e gomma da cancellare, di «questo va messo per forza in una posizione sicura».
Già, ma qual è un posizione sicura? Il “criterio” che solitamente viene adottato è questo: dirigenti centrali e locali e parlamentari nelle liste bloccate, invece “esterni” più o meno famosi nei collegi uninominali magari in grado di ricevere il consenso di partiti alleabili con il Pd. La tentazione di salvare dirigenti magari non popolarissimi è sempre forte, ma ieri Enrico Letta è tornato sull’immagine di candidati «con gli occhi di tigre» da sguinzagliare nel Paese, forse proprio a voler indicare la sua volontà di rinnovamento. Vedremo.
Certo, che le liste le faccia il segretario non è sempre stato vero, e meno che mai questa volta. Il peso dei capi-corrente, degli uomini forti del partito, Letta non potrà ignorarlo: i vari Dario Franceschini – un fuoriclasse assoluto per queste cose, degno erede di Franco Marini – Andrea Orlando, Lorenzo Guerini, poi Peppe Provenzano, il tesoriere Walter Verini, le capigruppo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi (ci scusi chi abbiamo dimenticato), ognuno ha qualcuno da piazzare: l’antico e consolidato uso del “Cencelli” di partito è duro a morire.
D’altra parte è vero che c’è da accontentare molta gente e il fatto che il prossimo Parlamento sarà ridotto di un terzo grazie alle geniale riforma grillina avallata dal Pd in formato-Zingaretti certo non aiuta. E poi, come al solito, toccherà al Pd farsi carico dei compagni di strada, dai bersaniani (chissà a quanti posti “hanno diritto”), forse agli stessi dimaiani che sul territorio, tranne che a Pomigliano d’Arco, non esistono.
Ora, il problema politico che si cela dietro la composizione delle liste riguarda direttamente che cosa si vuole fare del Pd. Se si vuole cioè salvare il salvabile dinanzi al pericolo-Meloni con un “catenaccio di partito” o se si cerca di portare al governo del Paese la parte più innovativa della società italiana, innanzi tutto candidando il meglio del riformismo e della sinistra italiana, cioè aprendo le liste a personalità esterne in grado di far vivere al meglio i contenuti e le idee della purtroppo breve stagione draghiana.
Ci vuole un grande fatto politico, in questa direzione. Sarebbe cioè un errore mortale se il Pd “appaltasse” l’agenda Draghi ad altre forze, che in ogni caso non mancheranno – da Azione/+Europa a Italia viva – ritenendo che il proprio compito sia quello di rappresentare gli apparati diciamo così più “di sinistra”: sarebbe non solo miope ma contraddittorio con la vocazione maggioritaria che di fatto ieri Letta ha riproposto («Ora pensiamo a noi»), un volta preso atto, con “soli” tre anni di ritardo, che con il killer di Draghi, cioè l’avvocato senza più clienti Giuseppe Conte, non ci si potrà alleare.
Da questo punto di vista, il discorso di ieri del segretario è molto importante perché segna una fase nuova nella vita del Partito democratico: magari ancora non tutti l’hanno capita (è sorprendente la proposta di un’alleanza tattica con il M5s avanzata dal senatore Zanda), ma finalmente Conte è finito nei panni che avrebbe dovuto rivestire fin dall’inizio: quelli dell’avversario. Se vocazione maggioritaria deve essere, ecco che le liste (anche nel proporzionale) dovranno veleggiare nel «mare aperto», come ha detto Enrico Borghi, cioè essere piene di persone nuove, anche di orientamento diverso, da Elly Schlein a Marco Bentivogli, per fare due nomi che rendono l’idea (e ci perdonino gli interessati se li abbiamo tirati in mezzo), e chi se ne importa se qualche parlamentare con varie legislature sul groppone dovrà dare il suo contributo in altra veste.
Solo se il Pd tornerà ad avere lo spirito delle origini può puntare, come dice qualcuno al Nazareno, al 30%, base minima per costruire un’alleanza repubblicana e riformista, senza veti, nel segno della lezione che Mario Draghi ha consegnato al Paese dimettendosi dopo l’assassinio gialloverde.
È l’unico modo, ci pare, per giocare la partita. Sennò si farà testimonianza, travestita da sconfitta. E allora, probabilmente, ciao ciao Pd.