Tra i territori che crescono, a parte il caso comunque interessante di Prato che deriva da un aggiustamento statistico una tantum, l’incremento più rilevante è quello di Bolzano: circa il 4% con circa 20mila abitanti in più. Il dato non stupirà chi sa che gli altoatesini mettono al mondo molti figli, con numeri non lontani da quelli francesi (ne parliamo nel capitolo 4). Le altre province in terreno positivo sono quelle di Milano, Parma, Bologna, Rimini, Monza, Verona, Trento, Latina, Roma e Modena. Tra le dieci che hanno fatto segnare le diminuzioni più significative, quattro appartengono alla Sicilia, due alla Sardegna e due alla Campania. Il calo più drastico in assoluto è quello di Enna: i suoi 15 mila residenti in meno valgono in percentuale nove punti, ma soprattutto suonano come un bollettino di guerra.
Subito al di sopra di questo gruppo delle province più declinanti (che comprende anche Isernia e Potenza) si trovano invece, a sorpresa o forse no, quattro province del Nord: tutte con riduzioni dei residenti superiori al 5%. Si tratta di Vercelli, Genova, Rovigo e Biella. Aree di antica eccellenza industriale o agricola che però non hanno saputo ricollocarsi nelle nuove filiere globali. interne rappresentano oltre 4mila comuni – più della metà del totale – distribuiti su un territorio che vale il 60% della superficie complessiva del Paese. I circa 13 milioni di italiani che le abitano sono però solo il 22% dei residenti totali nel Bel Paese: parliamo di comuni piccoli o molto piccoli. Molti si trovano lungo la dorsale appenninica, ma sono interessate dal fenomeno anche aree delle Alpi, marginali rispetto ai flussi del grande turismo. La stessa altimetria è da sola un fattore rilevante: chi vive in quota ha più probabilità di restare ai margini della società.
Insomma, il caleidoscopio demografico italiano è complesso: la tendenza generale al declino nasconde situazioni assai differenziate, anche a non moltissimi chilometri di distanza, arrivando a tagliare al loro interno pure singole province. Una parte di questo problema è ben noto a sociologi ed economisti e, almeno sulla carta, alla politica. È stata pure coniata una denominazione tecnica per le zone demograficamente più asfittiche, quella di “aree interne”, con tanto di “strategia nazionale” dedicata, che ha visto la luce ormai da vari anni. Sono definite “aree interne” le porzioni del territorio nazionale distanti dai servizi essenziali: quindi prive di scuole superiori e di ospedali e lontane dalle principali vie di comunicazione. La classificazione ufficiale le distingue in base all’intensità dello stato di privazione che sperimentano; in concreto, viene misurato il tempo necessario per raggiungere il “polo” più vicino fornito di servizi.
Nell’insieme le aree interne rappresentano oltre 4mila comuni – più della metà del totale – distribuiti su un territorio che vale il 60% della superficie complessiva del Paese. I circa 13 milioni di italiani che le abitano sono però solo il 22% dei residenti totali nel Bel Paese: parliamo di comuni piccoli o molto piccoli. Molti si trovano lungo la dorsale appenninica, ma sono interessate dal fenomeno anche aree delle Alpi, marginali rispetto ai flussi del grande turismo. La stessa altimetria è da sola un fattore rilevante: chi vive in quota ha più probabilità di restare ai margini della società.
È proprio in queste zone che il concetto di spopolamento esce dall’astrattezza per assumere un aspetto concreto, quello di un panzer che schiaccia tutto ciò che incontra. Quando il calo demografico determina un circolo vizioso succede che la contrazione delle strutture pubbliche e la difficoltà di comunicazione scoraggiano le attività economiche e la stessa permanenza delle famiglie sul territorio, che a sua volta porta a una ulteriore riduzione dell’offerta di servizi e all’estrema rarefazione del tessuto produttivo. E via daccapo: altro giro, altra corsa (a perdere). L’esempio classico è quello delle scuole che chiudono per l’impossibilità di garantire classi con un numero minimo di alunni. Che si formino nuove famiglie, non c’è nemmeno da sperarlo: gli sbocchi lavorativi per i giovani sono quasi inesistenti e per loro – una volta completati gli studi secondari – l’esodo è un percorso quasi obbligato. Quelli poi che se ne vanno per frequentare l’università, raramente fanno il percorso inverso.
Anche sulla strategia nazionale per le aree interne pioveranno un po’ di soldi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (pnrr). E qualcuno spera che un aiuto possa arrivare dal South Working, un movimento nato all’indomani del lockdown del 2020, che punta a rivitalizzare i centri minori e marginali, rendendoli sedi attraenti per il lavoro a distanza grazie a connessioni veloci e dotazioni tecnologiche. Invertire una tendenza iniziata per queste realtà ben prima del 2014 sarà comunque un’impresa ardua.
In molti casi, alle criticità economiche e sociali si uniscono fattori di tipo naturale: il dissesto idrogeologico o eventi sismici come quelli che hanno colpito le aree appenniniche dell’Italia centrale. Catastrofi “normali”, che a volte hanno l’effetto di chiudere il cerchio, accelerando in modo definitivo i processi di “svuotamento” umano già in corso; catastrofi alle quali si potrebbero aggiungere in futuro gli effetti sconvolgenti del riscaldamento climatico. Lo spettro, terribile ma non così remoto, è quello della desertificazione di ampie zone del Mezzogiorno, di un’intera isola come la Sardegna (lo vedremo nel capitolo 4), ma anche delle aree meno “brillanti” del Centro-Nord. Serve ancora altro per persuaderci che la riduzione dei residenti in Italia non è una tendenza graduale, gestibile al costo di qualche aggiustamento, ma piuttosto una vera emergenza?
da “La trappola delle culle: Perché non fare figli è un problema per l’Italia e come uscirne“, di Luca Cifoni, Diodato Piron, Rubbettino, 156 pagine, 14 euro