Spatriati al NinfeoMario Desiati vince lo Strega in cui tutti sono stregati da Veronica Raimo

Il vincitore ha parlato invano del suo libro per 10 minuti con Geppi Cucciari, ma nessuno lo ha ascoltato perché a casa eravamo impegnati a guardare i crimini commessi dal suo stylist (e i presenti alla premiazione a pensare e ad aspettare la sorella del soccombente)

Premio Strega

Chissà quanto deve aver diluviato a Roma per staccare gli intellettuali presenti alla finale del premio Strega dal feticcio culturale che meglio li rappresenta: i tavoli dove mangiare e bere gratis. Quando comincia la diretta, l’eroica Geppi Cucciari è Fiorello al Sanremo 2021: una che fa battute davanti al vuoto (non quello esistenziale: quello della platea). Gli scrocconi culturali sono fuggiti sotto il portico – «Sembra che sia passata la finanza» – e lì stanno, del tutto disinteressati alla sua brutta fatica. «Simulate un minimo di umanità e fate un applauso. Benissimo: un appello caduto nel vuoto».

Dietro di lei, Emanuele Trevi vestito nella versione beige di Don Johnson in Miami Vice rappresenta il vero gender gap: non conquisteremo mai il mondo, finché ci toccherà metterci i tacchi tra i sanpietrini piovosi, e loro potranno indossare le Adidas a una serata di gala.

Spererei, ma so che le lettere italiane ancora una volta mi deluderanno, in un romanzo sui due rimasti in mezzo al Ninfeo sotto un ombrello, per i primi minuti unica platea della Cucciari: chi sono, perché non si sono allontanati, spererei in due amanti clandestini che pur di non separarsi per un secondo vengono indicati, inquadrati, scoperti dai coniugi a casa.

Speravo molto anche che tra i finalisti ci fosse Antonio Pascale, perché da anni attendo il romanzo che forse solo Francesco Piccolo, tra coloro che sono stati finalisti, avrebbe potuto scrivere: la storia dei finalisti dello Strega, che si odiano ma devono fingere di affratellarsi in nome della cultura, portati in giro per l’Italia a bere liquore giallo come in una gita scolastica controvoglia, nelle settimane che precedono la finale.

Invece i finalisti sono gente che dice «questa è una frase che arriva da Adorno», «la storia con la esse maiuscola», «trasformare questa fatica in qualcosa di gemmativo», «all’ennesima potenza di queer», «è come se questo libro fosse il mio canto funebre per quello che è stata Berlino» (frasi comunque meno spaventevoli di quella di Stefano Petrocchi, il signor Strega, che all’«Esistono ancora i salotti letterari?» della Cucciari risponde serissimo «Esistono i social network»).

Sono gente che nei filmati girati sui luoghi dei romanzi ha jeans sformati che in confronto l’elettricista che è venuto l’altro giorno a farmi le prese comandate era elegantissimo: bisognerà prima o poi trovare una via di mezzo tra lo scrittore sponsorizzato da qualche stilista e quello conciato come uno scappato di casa.

Sono gente che l’anno scorso si scriveva DdLZan sulla mano, e quest’anno ha enormi spille sulla giacca con scritto «My body my choice» o «Liberi fino alla fine», o fazzoletti arcobaleno nel taschino: a ogni nuova militanza letterata, mi è più simpatico il tizio cui fanno valutare i libri dalla copertina sulla spiaggia di Cesenatico, tizio che a ogni filmato ribadisce che lui non ha mai letto un libro in vita sua. A ogni accessorio contenutista, ripenso al Mattarella fatto sentire all’inizio, quello che diceva che se vogliamo che tutti leggano non è «per diventare letterati o poeti».

E poi c’è Veronica Raimo, che come i grandi attori nei film con pochi soldi arriva a tre quarti della serata, ma tutti l’hanno vista nei titoli di testa e pensano solo a lei, aspettano solo lei, sanno che non vincerà ma non riescono a distrarsi. Lei lo sa e sa che da lei vogliono essere épaté, e non li delude: «Non volevo che fosse una seduta di analisi, piuttosto una seduta sulla tazza del cesso».

Veronica Raimo che, nella metà delle settimane d’uscita, ha già venduto il doppio di Desiati, vincitore annunciato (ogni anno, oltre ai pettegolezzi sulla gita in pulmino dei finalisti, la cosa più interessante dello Strega è il casino che combina Einaudi, che si trova sempre con un finalista sostenuto dalla casa editrice e un altro che è quello al quale converrebbe apporre la fascetta delle vittoria, moltiplicatrice di copie che tanto più fa guadagnare quante più sono le copie di partenza).

Veronica Raimo il cui irresistibile fascino è da mesi l’unico argomento di conversazione dei letterati romani (sarà sessismo? Sarà ingiusto vantaggio? Quando si poteva parlare dell’aspetto dei romanzieri senza che le code di paglia ideologiche prendessero fuoco, le foto della quarta di copertina erano un tema: Alessandro Baricco o Bret Easton Ellis avrebbero avuto le stesse carriere, fossero stati bruttini?).

Veronica Raimo il cui fratello forse ora è figlio unico: è più facile voler bene a tua sorella quando vende poco? Le si può perdonare d’aver trovato il successo con la storia della vostra famiglia, che forse avresti potuto scrivere tu? Christian Raimo è il soccombente che nessun Bernhard italiano sa scrivere, prima all’ombra del sodale Nicola Lagioia poi a quella della sorella minore?

Infine vince, come si sapeva da mesi, Mario Desiati, che parla invano dieci minuti con Geppi Cucciari del proprio libro. Dieci minuti in cui nessuno lo ascolta perché siamo tutti impegnati a fissare il suo ventaglio rosa e a pensare ai crimini degli stylist, una categoria che la storia – maiuscola, direbbe una finalista – dovrà processare per molte ragioni, tra cui l’aver convinto i maschi che la creatività nell’abbigliamento fosse alla loro portata. È un peccato, che il ventaglio ci distraesse, perché a un certo punto Desiati ha detto «La gentilezza è così rara che io la scambio sempre per amore», una frase in cui c’era più letteratura che in tutto il resto della serata.

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