Gli irregolariIl giorno in cui scoprii che mia madre era andata via di casa

Un romanzo che comincia con una separazione e un amore giovanile. È “Spatriati”, di Mario Desiati (Einaudi), una storia di relazioni e crescita, dalla provincia al mondo intero che riassume le complessità di una generazione senza radici

Fotografia di Victoriano Izquierdo, da Unsplash

Per Claudia i primi tempi non esistevo. Era la più alta della scuola, i capelli rossi sfavillavano sul collo – la tonalità delle marasche che i miei nonni avrebbero raccolto in estate per trasformarle in barattoli di confetture granata e amaranto. Gli occhi di un colore diverso l’uno dall’altro, marrone chiaro e verde azzurro, quegli occhi che qui chiamano «di bosco». Aveva ossa sporgenti, zigomi appuntiti, il viso magro e allungato.

Durante la ricreazione l’atrio del Tito Livio si svuotava, gli studenti correvano ad accalcarsi contro il muro per abbeverarsi d’ombra. L’unica al sole era lei. Se qualcuno avesse potuto osservare il quadrato dell’atrio dall’alto avrebbe visto un deserto d’asfalto con un puntino rosso al centro.

Si portava addosso alcuni miei stessi vizi antisociali: si toccava il naso e si arrotolava una ciocca di capelli attorno all’indice. Tra i suoi libri spiccava il cartoncino colorato dei manga di Rumiko Takahashi, arrivava a scuola ascoltando musica con le cuffie senza curarsi di nessuno.

Nel cambio d’ora affilavo matite stando nei suoi paraggi, chiacchieravo con insipidi compagni dalle facce squadrate e l’alito di Philip Morris.

Un giorno sentii lo squallido interrogatorio al quale era stata sottoposta da un drappello di usurpatori delle sue attenzioni: «Perché stai sola?», «Perché non fai come gli altri?» Intendevano dire: «Perché sei come sei e non sei come noi?» Insistevano con aria melliflua, la incalzavano, e Claudia rispose: – È già difficile essere uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri.

Facile rifugio l’amore non corrisposto, per le adolescenze solitarie e insicure, quelle di chi ancora non sa chi è, e io non sapevo quasi niente di me, e tutto ciò che ero stato fino ad allora lo tenevo nascosto, terrorizzato che potessero giudicarmi inadatto.

Venivo da un’infanzia di oratori di campagna e squadracce di calcio di periferia, con allenatori che allungavano le mani e preti con la gamba di legno che si facevano frizionare l’arto monco in sagrestia, mentre nella chiesa vuota i più ribaldi giocavano a pallone usando l’altare come porta.

I Veleno non parevano preoccupati dei segni rossi che mi disegnavano le gambe, non si preoccupavano che pregassi o peccassi, nemmeno quando tornavo dalla campagna pieno di terra, umiliazione e odore di concime.

Era appena finito l’anno scolastico, l’estate si spalancava in distese di papaveri e grano. Rientrato a casa non trovai nessuno.

Mi abbandonai al silenzio, poi al crepuscolo che annerì le stanze e mi immalinconì. Mangiai solo del pane bagnato in acqua con sale e pomodori, la mia cena quando mia madre faceva il turno serale e mio padre spariva dietro le sue ambigue commissioni. Mi addormentai sul divano.

Al mattino la casa rimase silenziosa, nessuno dei trambusti che mi svegliavano di solito quando mia madre tornava dall’ospedale o mio padre riempiva il lavabo per la barba parlandosi allo specchio. Vuota. Con occhi di catrame e la gola inaridita vagai stordito, finché non rinvenni sulla scrivania di fòrmica – un banco di scuola che mio padre aveva trafugato dal suo istituto tecnico per farne il mio scrittoio – una busta bianca: «Alla mia Uva nera». Ebbi la sensazione che mia madre l’avesse scritto più per lei che per me.

Sono dovuta uscire e non c’eri. Ti parlerò di questi giorni che verranno. Ti aspetto in ospedale.

C’era il tempo futuro e questo non mi rassicurava. Misi piede per la prima volta in ospedale e nelle narici salì un odore simile alla benzina, i corridoi semivuoti rimandavano lo scalpiccio sul pavimento, le grandi vetrate si sporgevano a valle e dentro le stanze con le porte socchiuse ombre impalate vegliavano corpi avvolti nel bianco.

Mia madre apparve con le spalle erette, in uniforme, un paio di sabot e le calze trasparenti. Il viso luminoso, gli occhi infuocati e lucidi, i capelli costretti in un pugno biondo sulla cima della testa.

Mi abbracciò più del solito, la sua carezza sulla schiena assomigliava a un energico massaggio, il trasferimento di un codice tra me e lei, animali della stessa specie che si riconoscono.

Profumava di domenica mattina e mi teneva la mano spingendomi nella sala dei medici dove saremmo stati tranquilli. Fischiettava il motivetto di Vacanze romane dei Matia Bazar.

Era felice, mentre io faticavo a trattenere il nervosismo, cosa c’era da essere felici in quel posto? Disse svariate cose che il mio cervello elaborava e subito rimuoveva, il sorriso con cui mi aveva accolto man mano si trasformava in un’espressione di circostanza, severa.

– Saremo lontani, ma solo per un po’, abbiamo bisogno di spazio –. Giunse al punto: aveva lasciato mio padre.

– Piú avanti capirai, – concluse.

Tornai a casa prosciugato, concentrato sul suono che fanno le scarpe di gomma sull’asfalto.

– Tanto torna, tornano tutte, – proclamò il fanfarone, mio diretto ascendente, vedendomi sulla soglia pieno di lacrime non piante e di urla trattenute.

La routine delle nostre giornate cambiò, lui portava in casa i piatti di pasta preparati dalla nonna avvolti in uno straccio tiepido, oppure riscaldava delle zuppe pronte bruciandole con puntualità e rovesciando contumelie contro pentole, fiamme del gas, produttori di zuppe.

Non era mai colpa sua, sempre di qualcun altro, ma ancora non riconoscevo i cercatori di capri espiatori e non sapevo come trattarli. Covavo rabbia ardente sotto la cenere dell’apparenza mite, non perché i miei genitori si erano separati, ma perché non lo avevo capito prima.

da “Spatriati”, di Mario Desiati, Einaudi, 2021, pagine 288, euro 20

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