A me sembra che, se c’è qualcos’altro che sia bello oltre al bello in sé, per nessun’altra ragione sia bello, se non perché partecipa di questo bello in sé, e così dico di tutte le altre cose […] allora io non comprendo più e non posso più conoscere le altre cause, quelle dei sapienti; e se qualcuno mi dice che una cosa è bella per il suo colore vivo o per la figura fisica o per altre ragioni del tipo di queste, io, tutte queste cose, le saluto e le mando a spasso, perché, in tutte queste cose, io perdo la testa, e solo questo tengo per me, semplicemente, rozzamente e forse ingenuamente: che nessun’altra ragione fa essere quella cosa bella, se non la presenza o la comunanza di quella bellezza in sé.
Ma sul fatto che questa concezione coincida effettivamente con quella di «bellezza» occorre intendersi. Forse a questo punto ce ne siamo distaccati, stiamo andando oltre, per esplorare territori più vasti e strade meno dirette. Non per nulla, banalmente, nella cultura cattolica cristiana la preghiera dell’Ave Maria non è rivolta a una Vergine definita come «bella ragazza», ma come «piena di grazia». Qui sto giocando pericolosamente con i santi, con molta più facilità di quanta gioco con i fanti, perché i fanti sono imprevedibili e preda di ogni genere di follia, mentre i santi sono più benevoli e tolleranti, sono sicuro che siano d’accordo a lasciarsi tirare in mezzo.
Da questo gioco sulle parole che formano la nostra coscienza e la nostra percezione, perché è ormai assodato che il linguaggio contribuisce a dare forma alla realtà che abitiamo, stiamo cominciando a ricavare una possibile lettura del bello. E la radice di questa lettura del bello è senza dubbio platonica. È questa visione che ossessionerà gran parte del nostro Rinascimento, che è neoplatonico perché rincorre un’idea di bellezza.
Nel 1545 però la Controriforma del Concilio di Trento porrà un freno alla ricerca della magnificenza e porterà all’abbandono dell’idea platonica di bellezza per indirizzare l’arte e la cultura in un’altra direzione, ovvero verso un’idea concreta di valori etico-viscerali. Così tutto il Barocco è etico-viscerale, e non insegue affatto la bellezza. Non possiamo certo definire bello un dipinto di san Lorenzo sulla graticola. Oppure santa Lucia a cui vengono cavati gli occhi. Non si cercano più la grazia e il fulgore, quello che si indaga da quel momento in poi è un tema completamente diverso. È il tema del significante.
<<< questo dibattito, tra l’altro, incentrato sul bello e sul non bello, si sviluppa gran parte del pensiero medievale. In fondo posso dire che ancora oggi noi siamo figli del Medioevo, perché il salto filosofico che avviene nel Duecento è di un’importanza fondamentale e porta uno stravolgimento culturale che cambierà completamente lo scenario del pensiero occidentale. Mentre ancora vigeva in alcuni ambienti monacali una traccia disordinata di pensiero tardo-platonico, penetrava in Europa la cultura dei testi di Aristotele, trasmessa attraverso gli arabi come Averroè e altri.
Secondo il pensiero di Aristotele – che non è il contrario di Platone ma ne è in qualche modo una sorta di evoluzione naturale, seppure contraddittoria – il sapere, il conoscere, il percepire, non consistono affatto nel rincorrere la concretizzazione dell’idea, ma sono il risultato di un lungo percorso di sperimentazione. Semplificando al massimo potremmo dire che dove Platone svalutava la conoscenza sensibile, limitata e incostante, a favore del solido mondo delle Idee, Aristotele rivaluta l’esperienza diretta del metodo scientifico. Sono i sensi e le intuizioni che spiegano com’è fatto il mondo.
“Che cos’è la bellezza” , Philippe Daverio, Solferino, 112 pagine, 14 euro