Il monologo del cruscotto Dibba non si candida alle elezioni, ma a Uomini e donne

Chiuso in un’auto ad agosto (ma avrà acceso l'aria condizionata?) sembra un incrocio tra l’eroina affranta ma non doma di Jane Austen e quello che parla da solo preparandosi al ritorno da una fidanzata che non lo vuole più

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Sono trentasei ore che penso al video di Alessandro Di Battista, chiuso in macchina, che annuncia che non si candiderà alle prossime elezioni. Certo, sono trentasei ore che penso all’aria condizionata: si sarà squagliato tenendola spenta, o l’avrà tenuta accesa da fermo, inquinando?

E perché dalla macchina? A casa i bambini dormono? Ha rivisto da poco L’ingorgo, giacché si sta facendo una cultura sui film del nonno di Calenda, e gli piaceva più l’ambientazione di Sordi (in macchina) che quella di Mastroianni (a casa di Stefania Sandrelli e Gianni Cavina)?

Ma, più di tutto, penso al discorso alla nazione davanti a un cruscotto, che gli storici studieranno, senza riuscire a mettere a fuoco: chi mi ricorda? Qual è il modello che Di Battista ha seguito? L’orazione di Marcantonio scritta da Shakespeare? Un discorso di Reagan scritto da Peggy Noonan? Julia Roberts che dice a Hugh Grant d’essere solo una ragazza semplice?

«Mi sarebbe piaciuto parlare anche con altre persone, ma non è stato possibile», dice Alessandro, in quel momento praticamente un partecipante a Uomini e donne che è stato ghostato – come dicono i suoi coetanei – da una tronista. «Dopo non aver ricevuto da nessuno, tranne Danilo Toninelli, un messaggio o una telefonata», aggiunge, ed è chiaro che Toninelli è il più bonaccione dei tronisti, quello che fa una telefonata anche alla corteggiatrice che non porterebbe mai fuori ma non vuole che ci resti male.

(Lo so, è il secondo giorno che manco di rispetto a Maria De Filippi paragonando i suoi programmi alla campagna elettorale. Prometto di trovare analogie diverse dagli accoppiamenti televisivi, in cambio però la politica italiana potrebbe promettere di sembrare un po’ meno Costantino e Alessandra – che, se non sapete chi siano, dovete mollare i talk-show e ripassare la storia di questa allegramente tragica nazione).

«Tutti vogliono candidarsi, e pur di avere una poltrona in parlamento sono disposti a vendere la madre», dice Ale (Di Battista, non la Ale di Costa in quell’Uomini e donne di formazione), e s’intravede un grande classico della cinematografia: il personaggio che non scende a compromessi. Tutti vogliono candidarsi, e lui che tutti lo vorrebbero («decine di migliaia» di messaggi, avrebbe ricevuto, «non sto esagerando»), lui no, lui non si candida.

E giù con le recriminazioni, quando lo chiamavano «il vacanziero» (il Gregory Peck che ci possiamo permettere), nonostante prendesse più voti di Di Maio, «ministro degli esteri e ministro di tante altre cose» (oddio, tante altre quali? Ministro della paura? Delle vacanze esotiche? Antonio Albanese ha un nuovo personaggio di cui non so nulla?).

A un certo punto diventa Sue Ellen O’Hara (Susèle nel doppiaggio italiano), la sorella rancorosa della protagonista di Via col vento, che strepita «Lei ha avuto due mariti e io morirò zitella». È un momento straziante, e in cui ci si augura che almeno l’aria condizionata sia accesa: «Per me il Partito democratico è il peggior partito italiano, è così, lo penso, e vedere questi esponenti del Movimento Cinque Stelle che ci si buttavano tra le braccia, io veramente la sentivo come una grande sofferenza». Ma picci. Me lo vedo che va dai Cinque Stelle traditori e dice loro «lui non ti merita», mentre Tina Cipollari e Gianni Sperti in studio scuotono la testa.

Alessandro è un uomo che soffre, e soffre come soffrono le eroine sentimentali che il romanziere ci fa capire meriterebbero amore ma purtroppo la vita è ingiusta e la trama abbisogna di ostacoli: «Nessuno, credetemi, nessuno mi ha detto: abbiamo bisogno di te». Perché fate così, amici, romani, parlamentari. Perché non lo fate sentire amato. Perché non gli dite che lui vale. Non avete forse visto abbastanza pubblicità dello shampoo? Non siete in sintonia con le decine di migliaia di messaggi di noi gente semplice che lo imploriamo di candidarsi, che gli diciamo continuamente che abbiamo bisogno di lui, anche se questo evidentemente non basta: vuole il vostro amore e non il nostro, è come i bambini che si affezionano di più al genitore assente, non si candida perché le nostre decine di migliaia di richieste non l’hanno convinto.

O è perché a restar fuori da elezioni già perse si fattura di più, tra editoria e tv e chissà? Per carità, non insinuerei mai che Di Battista fosse avido, ma è lui stesso, sempre dalla macchina accaldata, a dire che vuole continuare le sue battaglie e che ritiene esse battaglie vengano nobilitate dal «farle senza essere pagati con denaro pubblico».

Non riesco a capire chi mi ricordi, Ale, se un’eroina affranta ma non doma di Jane Austen o quello che in macchina parla da solo preparandosi al ritorno da una fidanzata che non lo vuole più nel film di Comencini, L’ingorgo. Però il mio momento preferito è quello del lapsus.

Sul finire del monologo del cruscotto, Ale riferisce che in molti (forse le stesse decine di migliaia di prima) gli chiedono perché non abbia fatto un movimento nuovo (c’è giusto scarsità di liste elettorali, in questo per niente ridicolo paese), e lui spiega che era impossibile, non c’era tempo, non si poteva accroccare una lista in fretta, «con il rischio che ci s’infilino delle persone poco raccomandate». Da qualche parte, Freud gongola.

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