«Agli elettori di Azione non possiamo chiedere di votare Di Maio, Bonelli (anti Ilva, termovalorizzatori e rigassificatori) e Fratoianni (che ha votato 55 volte la sfiducia a Draghi) nei collegi uninominali». Alle 11.21 di ieri il tweet di Carlo Calenda ha dato il senso della forse più rischiosa scommessa della storia politica recente. Sembra un “no, grazie” alla coalizione imperniata sul Pd: corro da solo e chi mi ama mi segua. E anche chi non esattamente lo ama, come Matteo Renzi, che da giorni ha deciso la stessa cosa, sarebbe con lui: «Io non guido», gli aveva detto nella reunion di qualche giorno fa tanto per mettere da parte aspirazioni egemoniche che al leader di Italia viva certo non difettano.
La decisione non è ufficialmente presa ma il dado sembra tratto: terzo polo, centristi, riformisti, vedremo come la cronaca li chiamerà ma di certo questo è il fatto nuovo, ed eclatante, delle elezioni italiane 2022, una rottura abbastanza clamorosa ma non inattesa dello schema di Enrico Letta e Giorgia Meloni del blocco contro blocco, conseguenza di un bipolarismo tanto forzoso da, appunto, non esistere più.
Calenda e Della Vedova non vogliono però restare col cerino in mano e chiedono al segretario del Pd di rispondere a due richieste precise: niente antidraghiani nei collegi uninominali e linea comune su energia ed economia. Sembra la quadratura del cerchio.
Se Enrico Letta non rilancerà alla grande, Calenda ha dunque pronta la sua scommessa puntando le fiches su un numero difficilissimo – come lo zero alla roulette, che quando esce però scombina tutto – convinto di poter prontamente smentire quello che istintivamente pensano tutti, e cioè che la divisione farà vincere Giorgia Meloni o chi per lei: dove sta scritto che Azione/Più Europa e Italia viva non possano essere capaci di togliere alla destra quei voti che nei collegi potrebbero essere determinanti per la vittoria o del candidato centrista o, più probabilmente, di quello di sinistra?
È un azzardo sul filo ma insomma non è detto che due soggetti non possano far meglio di uno («E se eravamo in tre, te menavamo in tre», Alberto Sordi), come dividendosi il lavoro, con Letta-Speranza-Fratoianni che vanno a raschiare il barile della sinistra mentre Calenda-Renzi consolidano un’area centrista, insidiando i voti di una Forza Italia che sta perdendo pezzi esattamente in direzione di Azione. Come diceva Fausto Bertinotti, «le mele con le mele, le pere con le pere», e può leggersi anche, questa vicenda, come l’eterna divisione tra le due sinistre. È una possibilità, uno scenario, una scommessa, appunto, sottile come la lama di un pugnale, ma bisognerà capire se quella lama si rivelerà d’acciaio o di plastica.
L’alternativa sarebbe quella di aggiungere un posto a tavola alla coalizione diretta dal Pd che ieri ha ufficialmente arruolato “Impegno civico” di Luigi Di Maio, candidato di Bibbiano, il quale ha persino scomodato Papa Francesco per questa denominazione.
Malgrado la presenza del ministro degli Esteri, che certo non è uomo di sinistra, la coalizione lettiana è a evidente trazione di sinistra e non è immune da simpatie grilline (ci sono Di Maio, Federico D’Incà e Davide Crippa) al punto – lo ha scritto La Stampa – che il Nazareno starebbe corteggiando il disoccupato Roberto Fico, uomo di Conte fino all’ultimo respiro, con l’evidente scopo di mantenere un filo con il killer del governo Draghi (la cui “agenda”, intesa anche come modo di fare, come stile di governo, il Pd sta mandando definitivamente in soffitta: e vai con la proposta lettiana di una nuova tassa per favorire i diciottenni, of course).
In questo quadro sarebbe stata un’acrobazia al limite della decenza politica una coalizione con due campagne elettorali, come ha chiesto Calenda, una “draghiana” e una “antidraghiana” e dunque la scelta di Carlo è, piaccia o non piaccia, un contributo alla chiarezza. Si discuterà da subito – e figuriamoci che cosa succederà dopo una eventuale sconfitta – di chi sarà stata la colpa della rottura del campo largo. Dovesse andar male, l’ira del popolo della sinistra contro i “terzisti” sarebbe tremenda.
Ma chi è il responsabile di quello che finora è un mancato accordo? La questione stavolta a noi pare non riguardi soltanto e soprattutto i “posti”, i seggi sicuri. Ci sarà stato anche questo ma veramente e il caso di dire che il problema è politico. L’impressione è che più che mai abbiano avuto un peso le “basi” dei vari soggetti e che i leader non abbiano saputo o voluto imporre ai propri militanti scelte impopolari. Così il Pd di Letta ha messo in giro che Renzi fa perdere voti e Calenda pure. Così quest’ultimo ha subìto le pressioni dei suoi e di ambienti vicini per dire “no” a una coalizione “non draghiana”.
Quello che è certo è che la nuova situazione pone un problema serio a Enrico Letta, che adesso si trova davvero a guidare una coalizione squilibrata a sinistra senza una “gamba” più riformista e moderata. Potevano pensarci prima, al Nazareno, e coltivare per tempo un rapporto costruttivo con quest’area che oggi sta facendo loro “ciao ciao” con le mani. Se Calenda e Renzi rompono, i cocci saranno tutti di Letta.