Come spesso accade con i bambini e con le persone di una certa età, Silvio Berlusconi ha ripetuto in pubblico quello che i suoi alleati avrebbero preferito rimanesse tra le mura di casa. Intervistato su Radio Capital, il leader di Forza Italia ha dichiarato candidamente che all’indomani della riforma presidenziale Sergio Mattarella dovrebbe dimettersi.
Le ragioni per cui Berlusconi tiene così tanto alla riforma presidenzialista e ha tanta fretta di vedere riaperta la corsa al Quirinale sono piuttosto trasparenti – evidentemente è ancora convinto di poter ambire all’incarico – ma non sta certo qui l’aspetto decisivo della questione. A questo punto, anche chi non avesse letto nessuno dei precedenti novecentocinquanta articoli pubblicati in merito su Linkiesta (più o meno uno al giorno dall’approvazione definitiva del taglio dei parlamentari a oggi), dovrebbe essere in grado di unire i puntini e giungere alla nostra stessa conclusione: se il centrodestra raggiungerà effettivamente quella maggioranza dei due terzi dei seggi che gli consentirà di modificare la Costituzione senza passare dal referendum, ne approfitterà per fare subito cappotto, riscrivendo le regole del gioco a proprio vantaggio e provando a catturare tutte le cariche istituzionali e le autorità di garanzia, che è esattamente quello che ha fatto Viktor Orbán in Ungheria. E comincerà proprio dalla carica istituzionale più importante di tutte.
Se questo sarà possibile, per la prima volta nella storia d’Italia, lo si dovrà all’effetto combinato del taglio dei parlamentari, del maggioritario e della strategia suicida del Partito democratico nei confronti del Movimento 5 stelle (di cui la scelta di approvare il taglio dei parlamentari è stato uno dei momenti culminanti), strategia che ci ha portati alla campagna elettorale più squilibrata e dall’esito più scontato di sempre.
Sentire ora il Pd e in particolare Enrico Letta lanciare l’allarme per le sorti della democrazia e il rischio di deriva orbaniana è dunque doppiamente irritante. In primo luogo, perché si tratta dello stesso Letta che da quando è diventato segretario del Pd ha partecipato a ogni possibile iniziativa accanto a Giorgia Meloni, dichiarandosi strenuo sostenitore del maggioritario anche quando il grosso del suo partito (alla buon’ora) si era convinto della necessità di una legge proporzionale, il che certo non ha aiutato a trovare in parlamento i numeri per riformare la legge elettorale e mettere in sicurezza il sistema; in secondo luogo, perché si tratta dello stesso Letta che prima ancora di diventare segretario già benediceva la scelta del Pd di votare il taglio dei parlamentari (all’indomani dell’accordo con il Movimento 5 stelle, e dopo avere votato contro per ben tre volte), insieme con un nutrito gruppo di parlamentari e di opinionisti che ancora in questi giorni rilanciavano analisi tese a dimostrare proprio l’insussistenza di qualsiasi rischio orbaniano, il che obiettivamente non fa di nessuno di loro il migliore portabandiera di una simile causa. Per non parlare di Matteo Renzi, che ancora pochi giorni fa, in varie interviste, rilanciava proprio il presidenzialismo.
È un fatto che fino a ieri Letta, una piccola parte del gruppo parlamentare del Pd e una larghissima parte dei suoi padri nobili e intellettuali di riferimento hanno continuato imperterriti a ripetere i soliti ritornelli sul bipolarismo, il maggioritario e la governabilità con cui veniamo rintronati quotidianamente, da trent’anni, da un’ampia ed eletta schiera di sapientoni.
Le ingenue parole di Berlusconi confermano dunque una volta di più che all’indomani del voto la destra tenterà il colpaccio, e sarà tanto più forte in quanto potrà utilizzare gran parte di quegli argomenti e di quelle dichiarazioni. Ma la battaglia per difendere l’equilibrio e la divisione dei poteri dagli epigoni di Orbán, che sarà verosimilmente la battaglia decisiva della prossima legislatura, ancorché disperata, non trarrà certo giovamento dall’aiuto di chi in questi tre anni ha spianato loro strada.