Campo realpolitikL’accordo tra Pd e Calenda fa saltare il terzo polo e apre le quattro campagne elettorali del centrosinistra

Dopo tante schermaglie, l’alleanza è stata siglata. Il partito di Letta ha ceduto quasi su tutto, tra le proteste dell’ala sinistra, ma sull’altare di questa coalizione senza leader unitari e con due frontrunner è stato sacrificato il sogno di un’offerta politica diversa

Cris DiNoto, Unsplash

Dopo l’accordo salva-Costituzione tra Enrico Letta e Carlo Calenda raggiunto ieri mattina a Montecitorio, adesso il rischio per il centrosinistra è quello di fare contemporaneamente quattro campagne elettorali diverse: quella di Azione, totalmente draghiana, quella della sinistra Pd-Fratoianni-bersaniani-Verdi, antidraghiana, quella del Pd, mezzo e mezzo, e quella di Matteo Renzi, fuori dalla coalizione e contro tutti.

La destra sfrutterà al massimo le contraddizioni, ove il centrosinistra riuscisse in qualche modo a occultarle. Ma per sedare i contrasti e fare la famosa sintesi ci vorrebbe un Capo scelto da tutti come fu Romano Prodi, con Walter Veltroni, che nel ’96 guidarono un Ulivo che certo non era immune da problemi interni, un’impresa che anche per loro due non fu facile. Ma un Prodi e un Veltroni questa coalizione non ce l’ha, non avendo nemmeno un candidato premier – è vero, non ce l’ha nemmeno la destra che però si è data un criterio: chi avrà più voti esprimerà il presidente del Consiglio – qui abbiamo due cosiddetti frontrunner, Letta e Calenda. È un punto debole.

Ma insomma, è un accordo buono questo tra Pd e Azione, che ha subito fatto infuriare i “cocomeri” di Sinistra&Verdi? E buono per chi? O sarebbe stato meglio rompere? Alla luce dell’happy end, evidentemente era maturata nei giorni roventi del tira e molla una certa voglia di intesa, soprattutto era cresciuto il terrore insufflato dai sondaggi che la destra melonian-salviniana potesse non vincere ma stravincere, con numeri tali da consentirle di cambiare la Costituzione, la qual cosa – va specificato – non è uno spauracchio generico: si tratta della modifica della Carta in senso presidenziale, con l’evidente obiettivo di far saltare, tempo massimo due anni, Sergio Mattarella.

Basta e avanza questo per cementare un’alleanza “difensiva”, che non intende mollare l’Italia a Fratelli d’Italia ma tenta almeno ostacolarne la presa totale del potere. In questo senso non ha torto Enrico Letta a dire che da ieri «la partita si è completamente riaperta». Questo risultato Letta lo ha portato a casa, costretto da un arrembante Calenda a cedergli il 30% dei seggi, a togliere dai collegi uninominali i candidati “divisivi” (e toccherà al Nazareno caricarsi un Luigi Di Maio in difficoltà a prendere il 3 percento), a richiamare nel documento unitario il nume tutelare Mario Draghi e a far riferimento alla sua agenda (rigassificatori, Pnrr, no tasse), tutte cose che un segretario del Pd non succube della sinistra interna come lo è “Enrico” avrebbe fatto da settimane; mentre Azione, ieri persino sorpresa dall’arrendevolezza dei dem («ci hanno dato tutto», dicono) in effetti porta a casa un bel piatto – il riferimento al poker ci sta – ed evita di passare alla storia come il partito responsabile della più clamorosa Caporetto del centrosinistra, seppure pagando un prezzo non piccolo.

Calenda infatti è costretto a rinnegare tutta la mistica del terzismo liberaldemocratico fuori e contro due poli artificiali e dannosi: ed è come se il “calendismo” in purezza venisse diluito nella spuma della realpolitik e – stanno dicendo i critici amici – tutta l’intransigenza ispirata nientemeno che ai fratelli Rosselli venisse annichilita nel piatto di lenticchie di qualche seggio in più.

Il Terzo polo a due cifre non ci sarà, forse la prossima volta. Tuttavia Calenda ha giocato le sue carte e ha saputo costruire dal niente un proprio spazio: ma, anche qui, se il Pd non fosse sempre confuso e infelice, timido e furbastro, uno senza voti né strutture alle spalle non avrebbe potuto fare il casino che ha fatto: è la stessa storia delle comunali di Roma quando prese a sorpresa il 20%: dal che si deduce che Azione non è la causa delle difficoltà dei dem, ma ne è l’effetto, più o meno come dieci anni fa toccò a Matteo Renzi infilarsi nella crisi della Ditta bersaniana.

Appunto, Renzi: gli è stato chiesto di rientrare perché i geni dem che sostenevano che l’ex premier fa perdere voti si sono ricreduti e i consensi di Italia viva non puzzano più. Lui resiste, da solo, il 3 per cento è una montagna da scalare senza compagni di cordata ma proprio questa solitudine, sul terreno argilloso di questa politica, può aiutare a sfidare il mondo, che è poi la cosa che il capo di Italia viva sa fare meglio.

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