Due più due fa quattroIl bipolarismo delle illusioni e la liberazione politica nazionale

In un Paese in cui irresponsabilità e alienazione vanno a braccetto da decenni, gli elettori hanno bisogno di sentirsi dire la verità. Non solo nei numeri dell’economia e del bilancio pubblico, ma anche in quelli della giustizia, dei diritti violati e delle libertà negate

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La Seconda Repubblica ha conosciuto un’unica vera alternanza politica, che non è affatto quella tra la destra e la sinistra, tra Berlusconi e Prodi, tra i gialloverdi e i giallorossi, tra Conte I e Conte II, bensì quella tra la ricreazione e la campanella, tra la democrazia del desiderio e la dittatura del bisogno, tra la normalità dell’auto-depredazione come ideale di libertà politica e l’anomalia del commissariamento dei conti e degli spiriti, come ingiusta punizione inflitta da un destino cinico e baro. 

Da trent’anni si va avanti così. E ogni volta, dopo lo scampato (anzi, rinviato) pericolo, si riparte esattamente come prima e dal punto in cui ci si era interrotti. Come se non ci fosse stato un conto salato da pagare all’irresponsabilità politica, ma un terremoto, un’apocalisse nucleare, un’invasione aliena. 

Destra e sinistra, ciascuna a suo modo – la prima con un’improntitudine gaglioffa, la seconda con un’ipocrisia pretesca – hanno già liquidato Draghi come fecero con Monti, cioè come una parentesi della storia da loro non causata, ma subita, come un martirio eroico e immeritato, malgrado il Mario di oggi non abbia neppure fatto l’errore del Mario di ieri, quello di mettersi in mezzo e di candidarsi alle elezioni, consapevole che la riabilitazione democratica dell’Italia non poteva partire dal basso, che il populismo non è una malattia del popolo, ma delle élite e che «non è saggio aspettarsi che l’opinione pubblica e gli elettori rieduchino i politici da cui vengono diseducati». 

Questa è stata la sciagura di Monti. Un commissario ai guai della politica, passi. Ma uno che metta in discussione la politica che produce i guai, cui poi tocca in emergenza porre rimedio, quello mai: è lesa maestà, proditoria invasione di campo e illegittima messa in discussione della volontà sovrana del popolo.

Come drogati e alcolizzati non possono uscirne fino a che non trovano qualcuno che li aiuti a riconoscere e ad accettare che non si drogano e non si ubriacano perché hanno troppi problemi, ma hanno troppi problemi innanzitutto perché si drogano o si ubriacano – se no avrebbero tanti problemi comunque, ma non quello che rende tutti gli altri insormontabili – allo stesso modo gli elettori italiani per disintossicarsi da una ludopatia politica da Sala Giochi e da Gratta e Vinci e da tutta la roba che gli interessati e amorevoli pusher gli hanno sparato in vena, popolando i loro incubi di nemici di ogni sorta – gli immigrati e le multinazionali, l’Europa e le banche, i cisgender e i transgender – anche gli elettori, dicevo, dovranno trovare qualcuno (non al bar, ma dalle parti delle istituzioni) che non solo dica loro la verità, ma abbia pure voglia di farsi carico della fatica che questa verità comporta: la prima, quella di non essere creduti o, peggio, di non essere accettati. 

In un Paese in cui irresponsabilità e alienazione politica vanno a braccetto da decenni – la prima campanella suonò nel 1992, con la lira a picco, dopo una ricreazione lunghissima di anni e anni in cui un deficit a due cifre raccontava una ricchezza immaginaria –  anche la Vandea antipolitica con le sue derive populiste e sovraniste è stata all’insegna di questa continuità di negazioni e rimozioni, di questa necessità impellente di riscrivere la storia del declino italiano per propiziarne un finale diverso da quello scritto nei numeri e non nei tarocchi. Non solo nei numeri dell’economia e del bilancio pubblico, ma anche in quelli della giustizia, dei diritti violati e delle libertà negate, della demografia, del rapporto tra le generazioni e delle relazioni tra gli stati.

Questa impresa di verità non può che essere però anche di libertà, di fantasia e d’invenzione. Tutte le cose seriamente politiche sono un far essere qualcosa che non c’è, non però come un prestigiatore tira fuori un coniglio da un cilindro, bensì come nella storia uomini e popoli hanno saputo uscire dalla galera di un destino apparentemente segnato e altri ne sono rimasti imprigionati. Riportare la politica con i piedi per terra, a misurarsi con la realtà, a fare i conti con quello che abbiamo perso inseguendo chimere e fantasmi, e quello che potremmo guadagnare tornando alla suprema libertà di dire che due più due fa quattro, è tutt’altro che una punizione. È una liberazione. 

Ma se è una liberazione, va anche raccontata così. Non come se fosse una medicina amara, ma per quello che è: il ritorno lento ma entusiasmante a uno stato di salute, che non cancella le difficoltà e non consente di recuperare di un balzo tutti i passi indietro compiuti mentre ci illudevamo di fermare il mondo e di scenderne, ma di riprendere a camminare e magari presto pure a correre. 

È chiaro che il nodo italiano sta lì: nel bipolarismo delle illusioni e degli inganni, con le sue paure immaginarie – il fascismo, il comunismo, l’immigrazionismo, il liberismo – e le sue mitologie incapacitanti. Il fatto che questa campagna elettorale a destra e sinistra (mettendo a sinistra anche gli antidraghiani a 5 stelle ora in divisa melenchoniana) sia stata immediatamente ricondotta a questo schema, nel convergente tentativo di schiacciare chi a questo schema vuole sottrarsi (Calenda-Renzi), è l’ennesima conferma di questa diagnosi. 

Non è ancora, di per sé, una prognosi infausta, ma il rischio di un’argentinizzazione, se non di una venezuelizzazione della democrazia italiana è decisamente incombente. Nell’immediato allora è prudente votare per quanti credono o almeno ammettono che due più due fa quattro possa essere la base minima, ma essenziale, di un programma di rinascita e liberazione politica nazionale.

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