Viviamo in un’epoca di grandi sfide. La crisi ambientale costringe a mettere in discussione i modi in cui produciamo e consumiamo, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra gli esseri umani e la natura. Il design può fare molto, contribuendo per esempio a ripensare il nostro rapporto con gli oggetti. Cambierebbe se questi fossero fatti di materia organica e anziché durare potessero scomparire una volta assolto il loro compito? La bellezza è una questione culturale e mai come oggi quella delle cose effimere – dalle pratiche performative fino al web – è parsa tanto attuale. Merito anche di una fascia di consumatori (Generazione Z e Millennial, ma non solo) attenta all’impatto che il proprio stile di vita ha sul pianeta, in linea con valori improntanti al rispetto delle risorse e degli animali e oltre il generico claimwashing delle aziende.
I grandi marchi sono indubbiamente avvantaggiati in fatto di sperimentazione, perché collaborando con le start up del settore sono in grado di introdurre materiali innovativi spesso troppo costosi per chi opera a prezzi più bassi. Eppure ogni giorno si sente di singoli progettisti che hanno creato qualcosa di strano e meraviglioso dagli scarti del legno o della frutta, dai funghi e dalle alghe. Erez Nevi Pana è uno di questi. Nato nel 1983 a Bnei Brak, in Israele, e cresciuto fra i terreni del vivaio di famiglia, ha trasformato l’attrazione per i materiali naturali nel fondamento concettuale del suo lavoro: «Ora, invece di coltivare fiori e piante, coltivo oggetti», fa sapere. Il talento per il design dice di averlo ereditato dalla madre, un’ex modellista che ha interrotto la carriera per dedicarsi alla famiglia.
Dopo aver studiato all’Holon Institute of Technology, in Israele, Nevi Pana si iscrive alla Design Academy di Eindhoven, una delle scuole più rinomate per sfornare talenti. «La maledizione del design», la chiama ironicamente lui. «Durante i miei studi a Holon sono sempre stato considerato uno studente eccessivamente “artistico”, al contrario di quelli più “pratici” intorno a me», racconta. «Ma ho sempre saputo di voler continuare a studiare per un Master». E così è. A Eindhoven la sua tesi di laurea si incentra sul processo di ricristallizzazione del sale.
L’ispirazione gliela dà una vacanza nel Mar Morto, durante la quale visita la Dead Sea Works, una delle principali aziende produttrici di cloruro di potassio e altri minerali estratti mediante evaporazione solare. «Ho visto una montagna bianca in mezzo al nulla che ha stuzzicato la mia curiosità», ricorda il designer. «Quando ho capito che si trattava di un ammasso di sale trascurato – un sottoprodotto dell’estrazione dei minerali – ho deciso di abbracciare questo materiale e cercare dei modi per renderlo di nuovo desiderabile».
Ne è nata un’indagine a lungo termine cominciata con la creazione di superfici simili al marmo (che ha suggerito di utilizzare all’interno della Luma Tower di Frank Gehry ad Arles) e culminata nel progetto Bleached (per la galleria di design Friedman Benda, a New York), in cui ha immerso nelle acque del Mar Morto una serie di strutture in legno e luffa, lasciando che si cristallizzassero in meravigliosi oggetti ornamentali.
Nel 2020 i suoi esperimenti sull’architettura a base di sale sono entrati a far parte della collezione permanente della National Gallery of Victoria di Melbourne. Quando si chiede a Nevi Pana qual è il ruolo del designer oggi, la sua risposta è netta: i designer esaminano criticamente la società. In ogni progetto, secondo lui, è esposta una visione dove a un particolare problema corrisponde la sua possibile soluzione. «La gente mi definisce un artista, ma io sono un designer. Creare arte significa trasformare ciò che esiste in qualcosa di astratto. Al contrario io parto da quello che ho in mente per realizzare prodotti tangibili che, nonostante siano molto artistici in termini di forma o materiale, mantengono sempre la possibilità di utilizzo».
Quasi dieci anni fa Nevi Pana ha abbracciato il veganismo: ha iniziato con il cibo per poi mettere in discussione il suo abbigliamento e infine il suo stesso studio, da cui ha eliminato tutti gli elementi di origine animale. Convinto che l’attuale crisi ambientale sia l’espressione di una crisi spirituale, con il suo lavoro vorrebbe indurre le persone a pensare prima di consumare e gli altri designer a scegliere materiali puliti. Negli corso degli anni, fermare il maltrattamento degli animali ed esplorare alternative per vivere in armonia con la natura è diventato un obiettivo da raggiungere in modo olistico. Fino a comprendere la sfida di tracciare l’origine di tutti i materiali impiegati.
Per il progetto “Banana”, consistente in una fibra multiuso (ci tesse anche dei pouf ) realizzata a partire da steli e foglie di banana, ha coltivato lui stesso la materia prima necessaria. «Oltre all’etica, nel mio approccio c’è un lato ecologico. L’allevamento di animali può produrre cibo, borse di pelle o lana per i nostri divani. Ma il prezzo ambientale che paghiamo per queste cose è estremamente alto», spiega il designer.
Per lui la materia è il punto di partenza e quello di arrivo di una ricerca che aspira a ridurre l’impronta degli umani sul pianeta. Come? Imitando il metabolismo efficace della natura, in cui il concetto di rifiuto non esiste. Le creazioni di Nevi Pana sono «del tutto responsabili, oltre che 100 per cento sostenibili» perché, essendo fatte con materiale vegetale, sale e altri composti biodegradabili, sono destinate a dissolversi nell’ambiente. «Come creativo la mia vita personale è intrecciata con quella professionale. Utilizzando la piattaforma che il mondo del design offre, condivido uno stato di coscienza armonioso». Da quando ha abbracciato il design vegano Nevi Pana si dice anche più ottimista sul futuro: «Abbiamo iniziato a capire che non possiamo continuare a ignorare le richieste del nostro pianeta, perché troverà il modo di ripristinare uno stato di equilibrio. Con o senza di noi»