Dimmi come ti vesti, e ti dirò chi sei. No, non è uno di quei sulfurei test di quart’ordine che appaiono nella bacheca di Facebook, che con la scusa di regalarci facili verità ci sottraggono dati. Ma è pur vero che il modo nel quale ci vestiamo e i brand che immaginiamo più vicini a noi raccontano spesso in che cosa crediamo. Quando si parla di moda come “atto politico”, pensiamo sempre a divise, uniformi, abiti della contestazione. Un assunto che non è certo nato con il 1968 dei barricadieri di ogni direzione. Era facile riconoscere lo schieramento di appartenenza: l’eskimo? È di sinistra. Lo stivaletto Barrows? Ovviamente (estrema) destra. Una conversazione quasi da film di Nanni Moretti, ma che riflette decenni di “usi e costumi”.
«L’utilizzo dei vestiti come modalità di rappresentazione del potere politico è in auge sin dall’epoca di Elisabetta I», spiega Maria Cristina Marchetti, direttrice del dipartiment di Scienze politiche della Sapienza di Roma e autrice del libro Moda e Politica: la rappresentazione simbolica del potere (Meltemi). «Nei regimi assoluti si regnava per diritto divino», continua Marchetti, «i sovrani dovevano trasformarsi in entità astratte che perdevano la fisicità umana ma erano anello di congiunzione tra terra e cielo». Un concetto che lasciava spazio all’utilizzo di parrucche architettoniche, gorgiere, abiti dai volumi per i quali era necessaria la richiesta di un condono edilizio, e che è ben raccontato dal film del 1998 Elizabeth, dove, al netto delle inesattezze storiche, Cate Blanchett mostra al pubblico la trasformazione da donna a simbolo di una nazione, ieratica e inarrivabile.
«Il vero salto però è arrivato con la Rivoluzione Francese», prosegue Marchetti. «Era necessario mettere in scena il cambiamento epocale al quale si stava partecipando e dare un volto alla democrazia. Un’impresa complessa, tanto che gli stessi rivoluzionari incapparono nell’errore iniziale di imporre un’uniforme unica per tutti, nel tentativo di cancellare le differenze di classe. Si resero subito conto che così facendo si limitava la libertà di espressione, assomigliando più a una dittatura che a un governo democratico. Per questo ogni progetto del genere fallì». Una relazione utilitaristica, quella della classe politica con la moda, che è venuta meno durante il Dopoguerra, in concomitanza con la nascita delle democrazie.
«Il guardaroba di Palmiro Togliatti non era diverso da quello di Alcide De Gasperi. Questo perché, nonostante le abissali differenze ideologiche tra la guida del Pci e il fondatore della Democrazia Cristiana, il progetto comune a tutti i membri dell’Assemblea Costituente era talmente assoluto da non aver bisogno di un abito per essere avvalorato», conclude Marchetti. Una cronostoria dalla quale appare lapalissiano che una connessione tra i due mondi è sempre esistita, seppur a senso unico, perché la moda si è storicamente tenuta distante dalla politica, per motivi forse legati a un certo snobismo, più prosaicamente per evitare di essere ostaggio delle ideologie, pur con le dovute eccezioni: è noto che agli albori della mitologia legata alla “Signora”, come i suoi dipendenti chiamano Miuccia Prada, la fondatrice del brand meneghino per antonomasia, militasse nel Pci, sezione Porta Romana, circolo Carlo Marx, aperto da Giò Pomodoro nel 1972.
La partecipazione ai cortei in stivali Saint Laurent è ormai un classico della narrazione pradesca, ma oltre a queste sbiadite istantanee di tempi andati, e alla laurea in Scienze politiche alla Statale con la tesi Il partito comunista italiano e la scuola, la connessione tra l’operato quotidiano del brand e la politica ha sempre viaggiato su frequenze subliminali, più coltivata nella vita personale che sbandierata prosaicamente tra borse e tubini. Un assunto scardinato nuovamente dalla situazione geo-politica degli ultimi anni, tra guerre mondiali come incubi di ritorno e una maggiore consapevolezza delle disparità esistenti tra generi, colori e classi sociali.
Ma se i conflitti e le discriminazioni esistono da che l’umanità ha memoria, a cambiare le carte in tavola è stato l’avvento dei social, che ha permesso ai brand di raccontarsi al proprio pubblico senza passare per l’organo mediatore della carta stampata, e al pubblico di poter parlare, senza alcun grado di separazione, con le proprie maison di riferimento, chiedendo loro conto di pensieri, parole e opere, non solo su questioni stilistiche, ma anche sullo Zeitgeist. Richieste che spesso arrivano dalle generazioni più giovani, dalla Gen Z dell’eco-consapevolezza di Greta Thunberg ai Millennial, e alle quali i brand devono obbligatoriamente fornire risposte, considerato che, secondo i dati di Boston Consulting Group (Bcg), queste due fasce rappresenteranno a breve i principali clienti delle maison del lusso.
Secondo la ricerca di “Bcg True Luxury Global Consumer Insights”, redatta lo scorso giugno in collaborazione con Altagamma, saranno proprio loro i motori che consentiranno ai brand di riprendere velocemente i ritmi – e i fatturati – pre-pandemici. Se nel 2019 i Millennial rappresentavano il 35 per cento del mercato del lusso, e la Gen Z racimolava un misero 4 per cento contro il 38 per cento della Gen X, si sti ma che nel 2025 più del 60 per cento del mercato totale sarà costituito da under 40. «Certamente la situazione globale ha avuto delle conseguenze sul modo nel quale le case di moda comunicano», confermano Filippo Bianchi, managing director e partner di Bcg, e Guia Ricci, partner di Bcg. «L’attenzione alla comunità, alle tematiche sociali e ambientali, non è però soltanto il frutto dell’emergenza del Covid prima, e della guerra in Ucraina poi, quanto del dato che il baricentro del consumo si sta radicalmente abbassando.
Sostanzialmente, “30 is the new 50”: cinque anni fa il mercato era al 75 per cento formato da over 40, tra quattro anni i due terzi saranno under 40. Una rivoluzione copernicana perché questa fascia di clienti è totalmente diversa dagli over 50 in termini di gusto, modalità di acquisto, di consumo, di attenzione ai temi sociali. Per rimanere rilevanti, le maison devono di conseguenza adattarsi e cambiare approccio. Il ricambio generazionale era già in essere, e le condizioni storiche lo hanno semplicemente accelerato, velocizzando il cambio di passo».
Un cambiamento guidato, nonostante l’impasse temporanea dovuta alle nuove restrizioni da lockdown, dal mercato cinese e poi da quello statunitense, per motivi diversi. «In Cina la crescita economica e sociale ha portato sempre più giovani a entrare nel mercato del lusso, con lo stesso potere d’acquisto di consumatori più anziani» – spiegano Bianchi e Ricci – «mentre negli Stati Uniti la crescita è guidata dalla nuova generazione di start-upper, fondatori di tech company, milionari di criptovalute, tutte categorie under 40 che a questi temi sono particolarmente attente: per più del 65 per cento di Gen Z e Millennial, è fondamentale conoscere le idee dei brand in termini di diritti, identità di genere, inclusività, impegno sociale, sostenibilità, prima di acquistare. Un dato che interessa a una percentuale molto minore della Gen X (il 36 per cento)».
Dati avvalorati dall’opera e dalla testimonianza di creativi della nuova generazione, come il bolognese Marco Rambaldi, classe 1990, stilista emergente che alle ultime passerelle milanesi ha scosso gli animi con una collezione-manifesto: «La Gen Z ha molta difficoltà oggi a capire come mai il mondo non sia come gli era stato promesso», commenta Rambaldi. «C’è sempre più un distacco tra i loro ideali e ciò che si trovano davanti agli occhi. Credo che la moda debba colmare quel gap. Fare da ponte, esprimere e anticipare. Dare quella libertà che ognuno si prende e si merita, anche attraverso un abito. C’è bisogno di inclusività, empatia, accoglienza e gentilezza, oltre a un’attenzione maggiore al Pianeta e all’ambiente. Viviamo inoltre in una comunità lgbtqia+ che ha bisogno di risposte adesso, non nel giorno del mai».
Un assunto portato in scena nella sua collezione autunnale: un inno all’amore privo di confini, e che infatti si chiama “Nuova Poetica Post Romantica”, versione aggiornata su maglieria di quel “Comizi d’amore” – documentario del 1965 diretto da Pier Paolo Pasolini– nel quale l’intellettuale indagava e certificava i cambiamenti della morale italica in termini di amore e sessualità, intervistando i bagnanti del Meridione, della capitale, della Toscana. Il rossetto rosso lo sfoggiano tutti, in passerella sfilano corpi orgogliosamente difformi dai canoni modaioli. Una visione a cui è stata garantita un’esposizione universale, grazie a Maison Valentino, che ha deciso insieme alla Camera nazionale della moda italiana di prestare per ogni fashion week, il suo account Instagram a una nuova voce, priva di platee sociali globali, ma meritevole di essere ascoltata.
Così – che il dialogo franco sui massimi sistemi con i propri clienti sia indotto dal cambio di testimone del mercato o che sia frutto di un allineamento dei propri valori con la contemporaneità – continuano negli uffici stile le sedute di auto-coscienza collettiva. Sulla passerella di Balenciaga si parla della guerra in Ucraina: la sfilata di gennaio – relativa alle collezioni per l’autunno-inverno prossimo – era stata originariamente pensata per raccontare il cambiamento climatico, ma i natali georgiani del direttore creativo Demna Gvasalia lo hanno portato a dedicare l’evento a chi, come lui trent’anni fa (quando la Russia invase l’Abcasia dalla quale veniva) ha dovuto tramutarsi in un perenne esule. Una scelta che ha generato 25,2 milioni di dollari di Media Impact Value, algoritmo di Launchmetrics che misura il valore delle attività dei brand sulle piattaforme social. A superarlo, il Dior guidato da Maria Grazia Chiuri, (41,9 milioni) che dal momento del suo arrivo nel brand di proprietà di lvmh, ha costantemente utilizzato gli strumenti – e il munifico portafoglio del conglomerato francese – per valorizzare l’operato, spesso dimenticato e discriminato, di artiste e performer donne, tanto da portare il premio Pulitzer Robin Givhan a dire di recente che «Maria Grazia Chiuri sta portando Dior fuori dal patriarcato».
L’altra donna simbolo della moda italiana, Donatella Versace, non ha mai fatto segreto del suo supporto alla comunità queer, sostenendo apertamente il ddl Zan: un amore ricambiato, visto che nel 2019, è stata nominata ambascia- trice di Stonewall, l’organizzazione benefica che difende i diritti della comunità lgbtqia+. Il suo sincero apprezzamento per l’arcobaleno variegato nel quale l’umanità – e la femminilità – si esprime, è diventato chiaro a tutti in occasione della sua sfilata per la primavera/estate 2021, durante la quale ha messo in passerella Precious Lee, Jill Kortleve e Alva Claire. Non mannequin classiche, ma donne provviste di una rilevanza sociale direttamente proporzionale alla tagli.
Corpi vivi e reali che Donatella ha strizzato in vestitini stampati, smacco alla ipocrisie di alcuni colleghi che celebrano la diversità per convenienza, a patto che quei corpi siano monasticamente coperti, quasi a volerne celare le forme. Immagini, quelle della sfilata di Versace, che, nel Paese reale, lontano dagli addetti ai lavori e dagli intellettuali di questo nuovo umanesimo, hanno scatenato feroci critiche. Una dimostrazione lampante di quanto, nell’Anno Domini 2022, il corpo delle donne sia ancora un campo di battaglia, e la vittoria, o semplicemente il riconoscimento alla propria esistenza al di fuori delle categorie fisiche prestabilite più di un secolo fa, non siano per nulla scontati.
Il sostegno al femminile, anche lontano dai flash della passerella, viene perseguito con uguale determinazione. «Servono unità e coraggio per permettere alle donne di ottenere ciò che è loro di diritto», commenta Donatella Versace. «Non sono mai stata per le polemiche, perché credo che non siano utili a nessuno. Io sono per i fatti. E i fatti dicono che, oggi, in Versace le donne rappresentano il 64 per cento della forza lavoro e di queste il 48,5 per cento sono executive, coloro che, insieme, prendono le decisioni che indicheranno in che direzione andrà l’azienda. Sono molto orgogliosa che si sia raggiunto questo risultato di parità. Per quanto mi riguarda, non si tratta di una gara tra uomini e donne, ma di creare un clima paritetico in cui si dia la possibilità a tutti di eccellere e di appagare le proprie ambizioni».
Anthony Vaccarello, direttore creativo di Saint Laurent, ha raccontato, in una sfilata priva di borsette – croce e delizia dei brand, e pezzi con il più alto margine di ricavo sui quali spesso si fondano interi imperi – il nichilismo della società europea, portando in superficie il vulnus di un mondo sul viale del tramonto, privo di ideali e scarso in ottimismo. Di recente, Gucci ha invece annunciato che, tramite la sua campagna “Chime for Change” rimborserà le spese di viaggio alle dipendenti americane che nel loro Stato non abbiano accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva, e di conseguenza, al diritto all’aborto. Le posizioni del suo direttore creativo in merito erano però già note dalla collezione Cruise 2020, durante la quale Alessandro Michele aveva impresso su alcune maglie quel 22 maggio 1978, nel quale in Italia la procedura per terminare la gravidanza divenne legale.
Da Maison Valentino la rivoluzione era già iniziata con la sfilata “Rendez-vous” (primavera-estate 2022), durante la quale i modelli avevano letteralmente invaso le vie intorno al Le Carreau du Temple, portando la moda fuori dagli atelier, sulle strade, dove blazer e jeans smettono di essere semplici manufatti artigianali e si tramutano in totem identificativi, ideali tessere di appartenenza a un’umanità più a suo agio con un ritrovato senso di appartenenza a una collettività, quel “noi” che rifugge personalismi ed egomanie dei couturier. Un percorso coerente con l’impegno sociale del brand – che ha lanciato in era Covid una felpa che era un invito a vaccinarsi, i cui ricavati sono stati totalmente devoluti al programma Covax dell’Unicef – e arrivata all’acme con la collezione autunno-inverno 2022. Una sfilata che è stata un saggio radicale sull’atto della vestizione come impegno morale, volto a incorniciare e celebrare le genti più disparate in termini di età, genere, inclinazioni, e farlo con la sfida di un’unica cromia, il Pink PP.
In parallelo, gli invitati hanno ricevuto un libello nella stessa nuance, le cui pagine erano puntellate di interrogativi e asserzioni relativi all’oggi – tutti firmati dall’autore seminale di Gen X, Douglas Coupland, lo scrittore e drammaturgocanadese – sconfessando le stereotipie che abbinano al colore rosa frivolezza e inconsistenza. «Ho sempre pensato al linguaggio della moda come a uno strumento dall’intelligenza viva, che si nutre del mondo in cui abita e che può a sua volta ispirarlo e ingentilirlo», spiega il direttore creativo Pierpaolo Piccioli. «Credo che ogni gesto estetico abbia questa forza: crea un rapporto autentico con la società. L’immagine spesso arriva dove la parola non può. Nel creare un’immagine sento quindi la responsabilità dell’idea dell’emozione che questa immagine racchiude. È un bel compito, non mi fa mai sentire solo».
E in effetti, tra iniziative sociali che colmano la lentezza degli apparati buro- cratici e l’apporto dei social che cancellano distanze, i designer non appaiono più rinchiusi nei loro atelier, distaccati dal reale, ma piuttosto radunati intorno a un tavolo di un caffè letterario, dove discettano tra loro dello stato dell’arte. Ma non sono chiacchiere da bar: potremmo quasi chiamarli “Stati generali 4.0”, nei quali i creativi si immedesimano, finalmente, nell’umanità che vestono, e prendono posizioni. Con la consapevolezza rinfrancante di poter cambiare le carte in tavola. Almeno fino all’arrivo della prossima generazione.