Rob the gameLa storia del giovane venditore ambulante di Atene che ha sconvolto il mondo Nba

Come racconta Mirini Fader nel suo ultimo libro edito ad Add, Giannis Antetokounmpo ha risposto sempre a critiche pesanti sui social con carattere e disciplina unica, frutto di un passato difficile. Grazie al suo talento e spirito di sacrificio ha portato a termine la sua missione: diventare un simbolo per tanti giovani atleti

Giannis aveva sei anni quando iniziò a fare il venditore di strada per aiutare la famiglia. Lo faceva con Thanasis e sua madre: trovavano qualche oggetto nei quartieri più poveri, lo compravano per un euro o due, e lo rivendevano a un prezzo maggiore, tre, quattro euro, nelle periferie di Atene. Andavano spesso in spiaggia, soprattutto quelle ricche come Alimos Beach, confidando che i turisti con i soldi avrebbero comprato qualcosa. Giannis con una mano teneva Veronica e con l’altra sventolava per aria la mercanzia sperando che qualcuno trovasse accattivanti le sue adorabili guanciotte e invitante il suo super sorriso.

All’inizio non capiva bene né che cosa stessero facendo né che cosa stesse succedendo e ne soffriva. Sapeva solo che le cose non andavano bene e che spesso, quando aveva fame, vedeva la dispensa e il frigo di casa vuoti. C’erano giornate in cui non riuscivano a vendere abbastanza per mangiare se non a notte inoltrata e allora capiva che essere lì, provando a convincere qualcuno a comprare qualcosa, era la differenza tra mangiare o non farlo, sopravvivere o non riuscirci.

Vedeva anche come sua madre non si lasciasse abbattere, la schiena dritta, lo sguardo alto. Manteneva sempre una certa fede, anche quando sentiva di non voler continuare ad andare avanti così, o quando non le sembrava possibile riuscire a sfamare i ragazzi e il marito. «Dio è buono», ricordava spesso a tutti loro. Vendeva qualsiasi cosa trovasse: occhiali da sole, dvd, borse contraffatte, orologi, giocattoli, vestiti, prodotti di bellezza. «Qualsiasi cosa», dice. 

Quando nacque Alex lo portava con sé nei giri più vicini a casa, svegliandosi presto per non mancare il mercato di Laikh a Sepolia il mercoledì. Era un mercato all’aperto nel centro della città, con una serie di baracche. Aveva tutto: prodotti, erbe, tè, yogurt. Gli immigrati vendevano bigiotteria ai lati del mercato, spesso senza i permessi necessari per farlo.

Negli anni successivi Veronica si allontanava sempre di più per riuscire a vendere la propria merce, ma non voleva lasciare Alex da solo troppo a lungo per cui divenne il suo compagno di missioni. «Mi sono spinta anche fuori Atene, per tre giorni, e non potevo farlo da sola: lui è il mio bambino».

Non voleva questa vita, stare agli angoli della strada per ore, ma non c’erano molte opzioni. Come immigrata nera faceva fatica a trovare qualsiasi altro impiego stabile, soprattutto negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008. Era stato il peggior momento dell’economia dagli anni Trenta: erano fallite alcune banche, il valore delle azioni era precipitato, tutta l’Europa era impantanata in una pesante recessione.

I posti di lavoro, soprattutto quelli che cercavano due immigrati come Charles e Veronica, erano pochissimi. Perfino i cittadini greci non trovavano un’occupazione. In Europa i disoccupati erano oltre ventuno milioni, tra cui due quinti dei giovani greci. In tanti avevano perso la casa, o avevano parenti malati cui non potevano garantire le cure, figurarsi l’affitto in alcune aree residenziali.

Sopravvivere era dura per un cittadino greco bianco, ma per una donna immigrata dalla Nigeria era impossibile. Anche se era in Grecia che stava crescendo i propri figli, per le strade del Paese, frequentando le chiese di Atene, Veronica non era considerata greca. Per molti era soltanto una nera che stava crescendo i propri figli neri, e nessuno sembrava rispettare ciò che era riuscita a ottenere, anche professionalmente, in Nigeria. «Lì ero una segretaria, avevo lavorato in diversi uffici, in posti di una certa importanza. Ma quando arrivi in Grecia, niente di tutto questo ti viene riconosciuto», racconta Veronica. «Nessuno lo fa.»

Nel 1991 Charles e Veronica vivevano a Lagos, in Nigeria, insieme al loro figlio più grande, Francis, nato nel 1988. Stavano cercando di capire dove emigrare, e cosa fare. Ogni giorno il loro Paese diventava sempre più instabile. Dall’anno dell’indipendenza, il 1960, la Nigeria aveva già vissuto sei colpi di Stato e l’assassinio di tre presidenti, senza contare la guerra civile tra il 1967 e il 1970, nota come la Guerra del Biafra, durante la quale si stima siano morti tra uno e tre milioni di persone.

Alla fine degli anni Ottanta l’economia nigeriana era crollata. L’orgoglio nazionale era il petrolio, che costituiva il 95% delle esportazioni nazionali, ma quando il prezzo dell’energia e gli introiti del petrolio crollarono, il Paese si ritrovò con un debito estero di ventuno miliardi. Così, quando nel 1985 il generale Ibrahim Babangida prese il potere con un colpo di Stato, la Nigeria, come dichiarava uno studio condotto dal ministero delle Finanze, era sul bilico di una fragorosa bancarotta.

Charles, che apparteneva all’etnia yoruba, e Veronica, che era invece una igbo, sentivano crescere ogni giorno l’incertezza sul futuro, anche perché trovare lavoro sembrava impossibile. Veronica aveva sempre amato cantare e, da corista, aveva anche preso parte alla registrazione di un album con diverse canzoni tradizionali e un paio di pezzi in inglese. Amava Whitney Houston, Celine Dion e anche il reggae, ma non sembravano esserci troppe opportunità in giro. Charles era un giocatore di calcio talentuoso, che aveva giocato da professionista. Aveva velocità naturale, grande atletismo ed era forte mentalmente, ma anche nello sport le opportunità erano sempre meno.

Era difficile guardare avanti senza certezze sul futuro e allo stesso tempo era difficile pensare di lasciare la Nigeria per andare in un posto dove non si conosceva nessuno, e dove nessuno sapeva cosa aspettarsi. La Nigeria era casa, ma nell’estate del 1991 gli Antetokounmpo decisero di lanciarsi, e partirono alla volta dell’Europa. Francis rimase in Nigeria, per prendersi cura dei nonni. Charles aveva un’opportunità di giocare a calcio da professionista in Germania, ed è lì che lui e Veronica pensavano di andare per restare. Originariamente la Grecia non era nei loro piani, ma quando la famiglia arrivò in Germania, Charles si infortunò e questo mise di colpo fine alla sua carriera. Per due immigrati africani altre opportunità per restare non ce n’erano, e si rimisero in moto.

Ancora.

Decisero di andare in Grecia, una destinazione che tanti migranti scelgono per raggiungere Paesi europei più ricchi, oppure dove provano a fermarsi cercando asilo politico. Fu in Grecia, a Sepolia, un quartiere a nord del centro di Atene, che Veronica nel 1992 partorì Thanasis, il cui nome completo è Athanasios. Il nome era ispirato dall’amore di Charles per la parola greca “immortalità”: Athanasia. Giannis nacque nel 1994, Kostas nel 1997 e Alex nel 2001. Quattro bambini neri in un Paese a maggioranza bianca.

«Siamo sempre stati degli outsider», commenta Alex.

Veronica e Charles scelsero di dar loro nomi greci per aiutarli nel processo di assimilazione nel Paese adottivo, visto che tutti loro, figli compresi, erano allora considerati immigrati illegali.

A differenza di quanto accade in America, in Grecia lo ius soli non esiste: essere nati lì non garantisce automaticamente la cittadinanza. Il significato del loro nome africano, però, è qualcosa che ha continuato ad avere grande importanza per tutti loro: Adetokunbo significa “corona che arriva da un mare lontano” nel linguaggio yaruba di Charles. Il secondo nome di Giannis, Ugo, significa invece “la corona di Dio”, nel linguaggio igbo, quello di Veronica.

Sepolia era un quartiere popolare, sempre pieno di gente, soprattutto immigrati, non soltanto africani ma anche albanesi, pakistani, afghani, bengalesi, tutti alla ricerca di un posto dove vivere e di un lavoro. Proprio come Charles e Veronica, molti avevano lasciato il loro Paese sperando in un nuovo inizio, ma avevano presto capito che di opportunità ce n’erano davvero poche.

«Restavano solo perché gli affitti erano bassi», afferma Notis Mitarachi, il ministro greco per le Politiche migratorie e di asilo, «e perché potevano svolgere il loro lavoro, molti erano venditori ambulanti, nello stesso posto dove vivevano, per le strade del loro quartiere.»

Il quartiere era composto da tanti caseggiati di cinque o sei piani con terrazze aperte su ogni piano. Il treno della linea 1 della metropolitana passava attraverso quelli che sembravano tagli del normale tessuto urbano, sotto il livello dei marciapiedi.

C’erano parecchi caffè e posti di ritrovo, ma meno spazi verdi e strutture sportive che in altre aree della capitale. Parcheggiare era un’impresa perché la zona era molto trafficata. Senza i documenti, trovare un luogo dove vivere era difficile perché c’era bisogno di un codice fiscale che veniva assegnato solo a chi già aveva uno status legale o ai richiedenti asilo. Si poteva però andare ovunque a piedi, ricorda Alex: «Tutti conoscevano tutti, e ogni posto era vicino».

Veronica si divideva tra lavori di babysitting e pulizia di case. A un certo punto entrò anche nell’impresa di pulizie della stazione dei treni di Sepolia. Si stancava parecchio, aveva diversi acciacchi, ma era sempre di buonumore, e continuava a lavorare. «Ricade tutto sulle mie spalle. Io sono la mamma», diceva. «Darò tutto quello che ho ai miei figli: per questo devo lavorare.»

Charles divenne una sorta di tuttofare, e qualche volta si era arrangiato anche facendo l’elettricista, ma Alex lo ricorda lavorare come parcheggiatore, nel tentativo di avere un’occupazione continuativa.

Giannis vedeva i genitori ancora forti al termine di una lunga giornata di lavoro, mascherando i dolori. «Si davano da fare ogni giorno per provvedere a noi», ricorda Giannis che guardava suo padre sedersi a tavola senza nulla da mangiare, ma sforzandosi comunque di sorridere. Charles ripeteva spesso: «Non preoccupatevi per me, io non mangio: devo assicurarmi che lo facciano i miei figli».

E poi arrivava il momento in cui qualcuno diceva alla famiglia che se ne sarebbe dovuta andar via un’altra volta. Avrebbe dovuto raccogliere le proprie cose e trovarsi un nuovo posto dove stare, un posto tanto affollato quanto quello che stava lasciando. Di solito gli Antetokounmpo avevano i soldi per la luce, ma a volte si presentavano scelte difficili da fare. «Giannis mi ha detto che sua madre ha dovuto vendere l’anello di fidanzamento per comprare del cibo», racconta Michael Carter-Williams, suo compagno ai Bucks dal 2015 al 

2016 e suo buon amico. «Non avevano davvero nulla.»

Giannis divenne un venditore ambulante persuasivo. Sapeva come sedurre le persone e risultare simpatico, in modo che finissero per comprare qualcosa. Lo aveva imparato dalla madre. All’inizio lei non voleva che lui la seguisse, ma Giannis insisteva: «Vengo con te».

Era testardo, e riusciva a convincere le persone di aver bisogno di un oggetto che pochi istanti prima non consideravano essenziale. Faceva domande in continuazione e si considerava il miglior venditore della famiglia, a parte sua madre ovviamente. Non si arrendeva mai, asfissiando i potenziali acquirenti con un sacco di domande.

«Vuole questi bicchieri?», diceva.

«No».

«Ma sono molto belli, potrebbe usarli per…»

«No, grazie, sono a posto così.»

«Ma perché?»

Era insistente, rifiutava di accettare un “no” come risposta.

Non aveva altra scelta, perché la sua famiglia aveva bisogno di lui. A volte si sedeva da solo su una panchina, con un’aria solita- ria, introspettiva. La gente gli lasciava cibo, vestiti, a volte perfino soldi per permettergli di comprarsi qualcosa. Ma la maggior parte delle volte era con la famiglia. All’inizio lavoravano vicino al loro quartiere, pian piano però finirono per viaggiare lontano per periodi sempre più lunghi, a volte anche una o due settimane consecutive, in altre zone per lo più suburbane di tutta la Grecia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Giannis: l’incredibile ascesa di un campione”,  Mirini Fader,  traduzione di Mauro Bevacqua e Pietro Scibetta, Add editore, 225 pagine, 18 euro

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