Dieci anni fa – ma sembrano cento – cominciò uno sceneggiato rimasto famoso per la sua prima scena. Era la storia d’un conduttore di talk-show che voleva migliorare lo stato dell’informazione – fantascienza, diranno i miei piccoli lettori.
La prima scena non era stata scritta. La prima puntata sarebbe dovuta cominciare col conduttore che riceve lettere di minacce. Poi il produttore – Scott Rudin, quello che l’anno scorso è passato da più prestigioso produttore americano a cattivo che lanciava oggetti contro assistenti inetti – disse all’autore, Aaron Sorkin, qualcosa tipo «sì però io la voglio vedere, questa scena in cui lui combina un tale casino che l’America gli si rivolta contro e lo minaccia di morte».
E così nacque Newsroom, lo sceneggiato (lo trovate su Sky, se volete sapere come prosegue) di cui tutti ricordiamo la premessa. Il conduttore è a un dibattito all’università, è di pessimo umore, è seduto tra una democratica e un repubblicano che dicono simmetriche puttanate, e una studentessa chiede: mi sa dire in breve perché l’America è il più grande paese del mondo?
Mi piace pensare che a quel punto l’autore avesse preso ispirazione da Gore Vidal, che trovava esasperanti questi slogan ed esortava gli americani a smetterla di sentirsi una grande democrazia; fatto sta che in quella prima scena fa dire alla democratica che è grande per le opportunità e al repubblicano che è grande per la libertà, e a quel punto il suo protagonista si lancia nella cosa che più funziona in tv e in letteratura: un’invettiva.
«Stai veramente dicendo agli studenti che l’America è così a stelle e strisce e meraviglie che siamo gli unici ad avere la libertà? Ce l’ha il Canada, ce l’ha il Giappone, ce l’ha persino il Belgio: ce l’hanno centottanta stati sovrani nel mondo».
Poi (le invettive funzionano per accumulo) elenca i primati che l’America non ha (alfabetizzazione, aspettativa di vita, esportazioni), e i tre che invece ha: «Siamo primi al mondo in popolazione carceraria, adulti che credono negli angeli, e spesa militare». Prima ancora che l’eroe americano protagonista di Newsroom termini la tirata antiamericana con «Quando mi chiedi che cosa ci renda il più grande paese del mondo, non so di che cazzo parli: Yosemite?» (che è un parco parecchio grosso, ve lo specifico perché so che avete Google rotto), è impossibile non pensare di nuovo a Gore Vidal.
«L’americano istruito medio è indotto a credere che in qualche modo gli Stati Uniti debbano guidare il mondo anche se praticamente nessuno ha qualche informazione circa quei paesi che dovremmo guidare». Ma, se persino il Belgio e molte altre nazioni ignorate dagli americani ed elencate dal portatore d’invettiva (nominava persino l’Italia, fu un gran momento per l’orgoglio nazionale) sono dotate di quella premessa che è la libertà, cos’è che fa grande un paese?
Certo, tutto è relativo: qui da noi siamo meno ridicoli dell’Inghilterra, non avendo una famiglia reale; siamo meno giungla degli Stati Uniti, avendo il congedo di maternità retribuito e la sanità pubblica; e siamo equipaggiati di meno istinti suicidi dei paesi scandinavi. Siamo un grande paese?
L’Italia è un grande paese, ha detto Mario Draghi a Rimini, proseguendo poi con un esempio invero da calendario di Frate Indovino e non all’altezza d’un discorso che è stato lodato in misura smisurata: gli italiani lo hanno dimostrato, cito a memoria, nel momento della difficoltà, come sempre fanno. Si riferiva alla pandemia, col solito luogo comune sugli italiani che sì, certo, zoppicano nell’ordinaria amministrazione ma, ah!, che slancio, che sprint, che guizzi nelle emergenze. (Tipo il bambino che va male a scuola ma è perché è troppo intelligente e si annoia).
Ma che hanno fatto di così straordinario gli italiani in pandemia, ovvero nei mesi di clausura? Cantare dai balconi? Accontentarsi di chiamare le amanti nei dieci minuti al giorno in cui andavano a passeggiare il cane entro duecento metri da casa? Stare sul divano con Netflix e poi passare due anni a dire che gli serviva il bonus psicologo per il trauma da divano? Basta veramente così poco per fare d’un paese i cui parchi son più piccini di quelli americani un grande paese?
Eh ma l’impero romano, eh ma duemila anni di storia, eh ma vuoi mettere crescere culturalmente attrezzati a non abbinare il cappuccino e la carbonara, eh ma lo vedi che tutti gli americani che segui su Instagram vengono in vacanza qui, eh ma Dante e Leonardo da Vinci e Michelangelo e Fellini.
Ogni volta che qualcuno fa l’elenco delle ragioni per cui sarebbe la storia d’Italia a fare dell’Italia un grande paese, io neanche m’incomodo a pensare che l’Italia ai tempi di quasi tutti (tranne Fellini) i nomi elencati neppure esisteva. Neppure mi metto a dire ma se Dante a meno di quarant’anni già era in esilio. Ogni volta, penso alla Grecia.
Non a Barbados o alle Maldive o ad altri posti in cui pure i ricchi e famosi vanno in vacanza e ciò non ne fa nazioni che indichiamo come esempio di rilevanza, ma solo posti in cui c’è il mare bello; no, io penso proprio alla Grecia.
Dove probabilmente in questo momento qualcuno sta dicendo ma guardate che siamo un grande paese, abbiamo fatto la storia, siamo le fondamenta della civiltà, abbiamo inventato tutto noi, la democrazia, la filosofia, chi potrebbe mettere in dubbio la nostra grandezza.
Dove, come ovunque, nessun governante dirà all’elettorato guardate che siete (siamo) una nazione residuale che vive di antiche glorie, siete (siamo) la vecchia di Pirandello che s’imbelletta, siete (siamo) convinti che il passato sia una gloria e invece è una prigione. Diranno: siamo un grande paese, non vedete quanti turisti ci vengono, non lo sapete che Platone e Sofocle erano roba nostra, ma dove volete che vadano senza di noi l’essere, il non essere, la drammaturgia, la moussaka. Finché un giorno si troveranno davanti, i greci con la deriva patriottica, quello di Newsroom, che si spazientirà: «Quando cianciate di grande paese, io non so di che cazzo parliate: del Partenone?».