Poche cose mi annoiano più di chi dice che Google non è gratis, Instagram non è gratis, TikTok non è gratis, giacché la merce siamo noi. Siamo noi se siamo così fessi da consegnar loro le chiavi della nostra vita, obietto ogni volta: puoi stare sui social anche senza metterci le foto di tuo figlio.
Riporto sempre come esempio di stupidità l’unica persona che conosco che non abbia Facebook e che pronosticava catastrofi per la privacy quando tutti ci aprivamo una bacheca perché sì, perché volevamo vedere la novità, perché ci piacevano scemenze come il poke (non la ciotola di riso dei ristoranti milanesi: la funzione ormai dimenticata in cui pungolavi qualcuno che poteva solo ripungolarti in cambio, una scemenza assoluta epperciò irresistibile).
Noi caricavamo foto sceme di vacanze e facevamo auguri di compleanno, e lei diceva che non voleva che Zuckerberg avesse le foto dei suoi figli. Ma le ha solo se gliele dai, cretinetta. Puoi stare sui social e non far sapere loro niente di te. Come fai a essere così paranoica.
Questo fino a domenica. Poi domenica il New York Times ha pubblicato l’agghiacciante storia d’un’indagine per pedofilia in cui la pedofilia era il meno agghiacciante degli elementi.
Il poverocristo al centro dell’articolo aveva, durante la pandemia, fatto delle foto al pisello del figlio, gonfio e arrossato, in modo che il pediatra potesse vederle. Le aveva mandate alla moglie, la quale aveva poi provveduto a caricarle sulla piattaforma utilizzata dal medico per le cure in remoto.
E qui arriva la parte che sembra un messaggio promozionale di Apple. La moglie aveva un iPhone, quindi non le era successo niente. Il marito aveva un Android, che gira su Google.
Google collabora con gli investigatori per smantellare giri di pedofili controllando le foto di bambini che i suoi utenti inviano e ricevono (Apple no, era intenzionata a farlo ma, dice il NYT, gruppi per la difesa della privacy hanno obiettato).
Non solo in America, scopro da una rapida ricerca su Google (cercare su Google cosa faccia Google farebbe venire un’erezione a Orwell). A maggio di quest’anno, grazie alle segnalazioni di Google, è stato arrestato «un informatico quarantenne di Cisterna di Latina che vive con i genitori pensionati» (sembra un film di Todd Solondz). A marzo 2021, un trentatreenne milanese che aveva diecimila file a disposizione di mille pedofili che accedevano alla sua cloud (non sarò certo io a dire che, invece di baloccarci col bonus psicologo, dovremmo pensare a rivedere la Basaglia).
È un secolo, questo, che ha un rapporto delirante con la privacy: è il nostro feticcio, e al tempo stesso facciamo di tutto perché ce la vìolino. Neanche i più tenacemente contrari alla trasparenza, credo, obietterebbero al fatto che l’algoritmo possa vedere le nostre foto se in cambio sgomina giri pedofili; ma in genere non di giri loschi si parla, ma di pubblica esposizione volontaria.
Diciamo alle multinazionali informatiche dove mangiamo e cosa, che aspetto hanno i nostri figli, di quali malattie c’incuriosiamo e di quali culi gradiamo vedere le foto; poi però sosteniamo di tenerci tanto alla nostra privacy. Tuttavia, e lo dico mentre mi annoto di andare a chiedere scusa a quella mia amica senza Facebook, ci sono condivisioni obbligate. Non quelle social: quelle private che utilizzano gli stessi strumenti.
Al tizio raccontato dal New York Times, Google ha chiuso l’account dandogli del pedofilo. La polizia gli ha detto che aveva capito benissimo il contesto delle foto, Google no. Ci sarà un essere umano ottuso, dietro questa decisione, o l’algoritmo come sempre fesso? Non lo so, ma ho cominciato a tremare.
Abbiamo tutti avuto a che fare con l’algoritmo, e ne conosciamo la pomposa ottusità. Io non riesco più ad accedere al mio secondo account di Twitter perché l’algoritmo mi dice che ho tenuto comportamenti sospetti e per sbloccarlo gli devo dare il mio numero di telefono. Che mi guardo bene dal dargli (il feticcio della privacy, dicevo), ma la domanda è: un account che usavo solo per leggere gli scemi e dal quale non twittavo, che comportamenti sospetti può aver mai avuto? Se è sospetto andare sull’internet per leggere gli scemi, arrestateci tutti.
Tutto questo Twitter non lo sa, perché io mica ho potuto parlare con un essere vivente: la vera questione della gratuità non è che siamo la merce, è che il servizio clienti fa inevitabilmente schifo. Ci sarà un nerd ogni milione di account a smazzarsi tutti i reclami, ovvio che la probabilità che mi si fili è bassa, e che mi risponderà un software automatizzato, e che basterebbe un niente perché finissi come il poverocristo del New York Times.
I bambini non voglio vederli neanche vestiti, quindi dubito di poter essere sospettata di pedofilia, ma non serve tenere corsi universitari su Kafka per sapere che tutti siamo a rischio d’un qualche equivoco. E pazienza per Twitter (anzi: minor perdita di tempo, meglio così), ma non avevo mai pensato a che inarrivabile punizione sia la chiusura dei propri account di Google.
Così, a sentimento, i primi disastri che mi vengono in mente: le foto che il telefono salva lì, e che se mi rubano il telefono (è successo) solo da lì posso recuperare; sedici anni di conversazioni, di archivio involontario di azioni e spostamenti e produzione letteraria e curve di frequentazione: quand’è che ho smesso di sentire Tizio, avrò mai scritto un articolo su Caia, quanti anni sono che non vado nel tale albergo – è tutto lì, tra conferme di prenotazione e altre pezze d’appoggio conservate da Gmail. Ho affidato a Google la mia vita, mentre sbeffeggiavo chi temeva gliela arrubbasse Facebook.
Anni fa un maresciallo mi cambiò la password all’account di posta che usavo: voleva controllare che non avessi portato avanti traffici illegali, e non voleva che avessi la possibilità di cancellarli. Poiché era un tizio fatto di carne e una qualche logica, e non un algoritmo, mi diede la possibilità, per i giorni in cui alla mia posta accedeva lui ma non io, di inserire una risposta automatica, una cosa tipo «questo account non funziona, scrivetemi a quest’altro». Google no, Google al poverocristo intervistato dal New York Times gli ha congelato e poi cancellato tutto d’imperio, senza la possibilità di recuperare niente o avvisare nessuno.
Credo di aver già citato quell’Hitchens che, a Praga negli anni Ottanta, dopo che l’hanno arrestato rifiutandosi di spiegargli la ragione dell’arresto, conclude: uno non vorrebbe dire «kafkiano», ma ce lo costringete. Il poverocristo dice al NYT che ha deciso di non fare causa a Google perché ci vogliono settemila dollari di avvocato: sospetto che, dopo l’articolo, ci sarà la fila di avvocati pronti a difenderlo gratis e passare alla storia come quelli che hanno tolto le mutande a Google, dopo che Google si era sentito superpoliziotto che aveva diritto di decidere quali mutande fosse legittimo togliere e quali no. Speriamo che nella causa Google non perda così tanto da chiudere, sennò che fine fa il mio archivio?