L’esempio di MilanoSe vogliamo dare un futuro alle città dobbiamo impostarle a misura di bambino

Nel suo primo libro, “Le città visibili. Dove inizia il cambiamento del Paese” (Solferino), Pierfrancesco Maran spiega perché c’è bisogno di impegno e forte senso civico per garantire alle generazioni future un'esperienza urbana organizzata e stimolante allo stesso tempo

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Tutti nelle città sono importanti, però i giovani lo sono di più. Questo concetto può apparire autolesionista in politica, poiché le elezioni si vincono prevalentemente con i voti degli anziani. Cercare ossessivamente il voto «senior» è uno dei motivi per cui l’Italia non cresce, investendo più sul mantenimento del sistema pensionistico di chi ne ha già maturato il diritto, rispetto ai servizi per donne, giovani e lavoratori. Oltretutto i giovani non sanno organizzarsi per rivendicazioni collettive in grado di influenzare la politica, con la parziale eccezione della straordinaria mobilitazione lanciata da Greta Thunberg.

Se vogliamo invece dare un futuro alle città, e anche al Paese, dobbiamo provare a guardarlo con gli occhi e i bisogni di chi ha davanti a sé buona parte della propria vita. E non basta che lo facciamo pensando a loro, serve la loro voce. Perché diano consigli, ma soprattutto perché quando qualcuno ascolta ciò che hai da dire, aumenta la responsabilità di riflettere su quello che proponi e questo li aiuta a maturare.

Esattamente come gli sceneggiatori di “Ritorno al futuro”, non sappiamo cosa accadrà e non dobbiamo fidarci troppo delle previsioni, perché spesso si basano su informazioni imprecise. Possiamo solo sperare che abbiano torto quelle migliaia di scienziati secondo i quali abbiamo solo dieci anni per salvare il pianeta, visto che non sono certamente in corso azioni sufficienti a un cambiamento di rotta. Concentriamoci sul rendere i luoghi che abitiamo migliori, più equi, analizzando le conseguenze possibili, senza farci spaventare dalla fatica del cambiamento.

Non è facile farlo, veniamo da anni in cui tante scelte verso la sostenibilità venivano frenate dalle previsioni sulle ricadute economiche e da conservatorismi di ogni genere. A volte, anche solo togliere qualche posto auto per creare uno spazio pedonale sembra una fatica impossibile; chiedere che i negozi chiudano le porte d’ingresso per contenere lo spreco energetico pare un’aggressione a un modello commerciale, ridurre il consumo di carne sembra mettere in discussione la nostra libertà alimentare. Eppure dopo due anni di pandemia e mesi passati chiusi in casa siamo ancora qui.

Quando a Milano abbiamo inaugurato la ciclabile di corso Buenos Aires, abbiamo dovuto affrontare le ire di una storica associazione di commercianti che sosteneva che, senza auto, lo shopping ne avrebbe risentito. Personalmente ritengo che questo atteggiamento contribuisca al declino di alcuni assi commerciali che dovrebbero invece sfidare le amministrazioni a pedonalizzarne il più possibile, visto che fino a prova contraria entrare in auto nei negozi non è ancora consentito.

Ma in generale, né la politica, né le parti sociali spingono per prendere decisioni con quella che, ne sono convinto sempre di più, è l’unica domanda veramente giusta: qual è la miglior decisione per i bambini? È un quesito che non è facile porsi, eppure deve essere la principale guida dei place maker. Lo stesso, prima di diventare papà, non riuscivo a ragionare al meglio in quest’ottica e, anche oggi, vedo le tante difficoltà nel trovare il punto di compromesso migliore per chi vuole andare in questa direzione.

Sembra un approccio utopico, e forse lo è, ma, dopo una pandemia, magari si può anche cambiare prospettiva.

Il principale problema reale nelle città attuali è evitare che la fatica della vita urbana, dettata dai costi, dalla percezione di insicurezza, dagli spazi privati angusti, dai problemi ambientali, uniti a una riduzione delle opportunità sociali, spinga i lavoratori a preferire di vivere altrove.

Ragionare su una città a misura di bambino, significa anche migliorare la vita dei genitori che, anche come lavoratori, sceglieranno di continuare a vivere in città. Vuol dire puntare su spazi pubblici per gli adolescenti, su opportunità per gli universitari e case accessibili per quando diventeranno giovani lavoratori. Fare in modo che le difficoltà degli anziani non ricadano esclusivamente sulle famiglie, mantenendoli al contempo parte della vita comunitaria.

È il momento di passare da un modello di città e di società competitiva, che può lasciare indietro chi è in difficoltà, a un modello collaborativo. Una questione che non riguarda solo la città e la politica, ma anche il mondo del lavoro e le imprese, che hanno goduto di grande sostegno pubblico durante la pandemia e ora devono contribuire a loro volta a creare una società più giusta.

Impegno, non promesse.

Non ci sono bacchette magiche, non ci sono scorciatoie, esistono la burocrazia, la fatica, le contraddizioni, la carenza delle risorse necessarie e anche i passi indietro. Lo sviluppo non ha un percorso lineare e non solo perché all’improvviso possiamo trovarci a vivere una pandemia.

Tutti hanno ipotizzato che le città di successo continuassero a crescere, almeno fino al 2050. Una previsione basata su quanto accaduto negli ultimi venti anni, che ha guidato le scelte di tante città nel pianificare la loro crescita e i servizi necessari.

La pandemia per la prima volta ha frenato questo percorso. Dopo il 2020, anche il 2021 ha confermato una stagnazione delle principali città americane: non c’è stata crescita né a New York, né a Los Angeles, né a San Francisco, le città di maggior successo dall’inizio del millennio, al punto da finire in una bolla immobiliare secondo il già citato Bubble Index. Costi alti, smart working, insicurezza e minor vita sociale hanno rotto il patto urbano che ne aveva generato il successo.

Non finisce tuttavia la voglia di vivere in città. Quindi crescono Dallas, Houston, Phoenix, città oggi meno care, forse più innovative, in grado quindi di attrarre giovani. La nuova geografia degli Stati Uniti scopre l’innovazione del Texas e degli stati del Sud, che stanno integrando nuovi talenti, anche stranieri, e che, anno dopo anno, diventano più aperti e meno conservatori. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le città visibili, Pierfrancesco Maran, Solferino, 272 pagine, 16 euro