Una “piazza aperta”; una rastrelliera per biciclette in sharing; una donna che lavora al Pc su una panchina all’aperto; tre bambini che giocano con la corda e una ragazzina che porta a spasso il cane; due alberi rigogliosi; grattacieli che osservano dall’alto abitazioni più datate ma ben tenute. Non si vedono automobili, parcheggi, centri commerciali e fiumi di persone in giacca e cravatta che si accalcano tra loro sui marciapiedi. I ritmi sono lenti, “di quartiere”, totalmente diversi rispetto alla concezione di metropoli che dominava l’immaginario collettivo fino a pochi anni fa.
Quelli appena elencati rientrano tra gli elementi imprescindibili della città del presente e, soprattutto, del futuro. E, non a caso, sono stati illustrati all’interno della copertina di “Le città visibili. Dove inizia il cambiamento del Paese” (Solferino), il nuovo libro dell’assessore milanese alla Casa e al Piano quartieri Pierfrancesco Maran, il candidato con più preferenze (9.166) alle comunali dello scorso autunno.
«Il titolo mi sembrava un omaggio al più famoso libro di Italo Calvino (“Le città invisibili”, ndr), che andava spesso al cuore dei problemi che affliggevano i centri urbani. Oggi, le città sono così tanto raccontate che si verifica spesso un eccesso di informazioni, a volte superficiali. L’idea è provare a restituirne le complessità, trattando anche alcune questioni che solitamente non emergono», ci spiega il 42enne del Pd, entrato nelle istituzioni meneghine prima della maturità e nominato assessore alla Mobilità e all’Ambiente dall’ex sindaco Giuliano Pisapia a soli 31 anni.
Alla suo terzo ciclo consecutivo in una giunta del Comune di Milano, Maran ha scelto di raccogliere in un libro – in uscita mercoledì 1 giugno 2022 – esperienze e aneddoti personali e professionali della sua cavalcata nel mondo della politica meneghina, per provare a delineare quella che dovrebbe essere una città nuova, più vivibile, più sostenibile. E, appunto, più «visibile».
La copertina del libro è caratterizzata da una delle cosiddette “piazze aperte”, che stanno dando un volto nuovo agli spazi pubblici milanesi. A circa quattro anni dai primi interventi di urbanistica tattica a Milano, qual è il bilancio e quali sono i progetti futuri?
«In quattro anni, solo a Milano ci sono stati 38 interventi di urbanistica tattica: se avessimo agito in maniera tradizionale, forse staremmo aprendo ora i cantieri dei primi. Di fianco a una programmazione a lungo termine, bisogna avere gli strumenti per poter fare interventi semplici e immediati: l’urbanistica tattica lo dimostra. Settimana scorsa abbiamo annunciato il passaggio a una nuova fase di progetti. Vogliamo intervenire per creare nuovi spazi pedonali davanti alle scuole, vogliamo creare un ambiente sempre più protetto e dedicato al gioco anche al di fuori delle scuole elementari».
In copertina ci sono anche le bici: perché, in Italia, le ciclabili in città rappresentano ancora un tema così divisivo?
«C’è un falso mito che gli unici che lavorano si muovono in automobile. E c’è anche l’idea che l’economia italiana sia ancora molto legata all’automobile, quando invece siamo fuori da anni dalla top 10 europea dei produttori. Tuttavia, siamo stati anche gli ultimi a interrompere i finanziamenti per l’acquisto di automobili, e quindi dobbiamo smaltire una coda di veicoli ormai vecchi che fa sì che l’Italia abbia il più alto numero di automobili per abitanti tra i Paesi dell’Europa occidentale. Questi sono fattori che esistono anche a Milano, dove siamo scesi sotto le 50 auto per 100 abitanti, ma con città come Parigi o Berlino che ormai viaggiano verso le 25».
In questo periodo storico, il coraggio di fare scelte impopolari e drastiche è un aspetto decisivo per cambiare le città e renderle più sostenibili in termini ambientali, sociali ed economici. È d’accordo?
«È vero, ma non è facile. In pandemia abbiamo creato decine di chilometri di ciclabili e una normativa che ha consentito a migliaia di ristoranti e bar di mettere i tavolini all’aperto, consentendo loro di sopravvivere. Questo cambiamento è stato fortissimo, ma ha salvato pezzi di economia del nostro territorio. Qualunque cosa fai, esisteranno delle critiche. Quindi conviene agire verso quello che si pensa possa essere l’interesse generale e la sostenibilità».
Poche settimane fa la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia per via dei livelli di biossido di azoto. Tra le giustificazioni ufficiali fornite dal nostro Paese c’erano le “tradizioni locali”: dietro l’inazione italiana nella lotta allo smog, la sensazione è che ci siano dei fattori culturali troppo ingombranti.
«Superare gli scogli culturali non è affatto semplice. Quando negli Anni 80 e 90 combattevamo solo contro la Co2, bastava bloccare il traffico qualche ora per vedere i risultati. Pm10, No2 e Nox, invece, sono misuratori che non dipendono dall’azione immediata, al punto che si può bloccare il traffico e vedere comunque il Pm10 salire. Questo rende più deboli coloro che cercano di costruire le condizioni per limitarli, perché vengono facilmente attaccati. C’è poi una distanza tra gli obiettivi delle città e di chi governa territori più ampi. Mi spiego meglio: mentre Milano costruiva una metropolitana, Regione Lombardia realizzava la Brebemi. Se i treni locali fossero evoluti come l’alta velocità, indubbiamente avremmo un minor traffico privato».
Il modello dei quartieri autosufficienti segna il ritorno a una vita più lenta. Sta fallendo l’idea della grande metropoli frenetica, veloce e iper-connessa?
«Io credo che siano cambiate le aspettative di tanti cittadini. L’idea della “città da 15 minuti” non si basa tanto sui servizi pubblici: il cambiamento sta coinvolgendo maggiormente il mondo privato. Fino a sette-otto anni fa continuavano ad arrivare richieste di permessi per aprire centri commerciali nell’hinterland, ma oggi la grande distribuzione cerca di aprire piccoli spazi di quartiere. I ristoranti e i bar stanno cercando una dimensione di prossimità. E la questione dello smart working consente di dedicare più tempo alla vita di vicinato. I quartieri semi-centrali delle grandi città sono già da tempo “a 15 minuti”, ad esempio Porta Romana. La sfida è far sì che sempre più territori periferici abbiano la stessa offerta».
Nella “città da 15 minuti” ideale avremmo tutto sotto casa, o quasi. Così non rischiamo di chiuderci un po’ in noi stessi, senza vivere pienamente la città?
«Questa idea di città non va vissuta come un recinto, ma come opportunità. Gli spostamenti più lunghi non diventano una necessità, ma una possibilità. Dobbiamo fare in modo che il cittadino non debba spostarsi di mezz’ora per andare dal medico di base o per prendere un caffè. Poi, ovviamente, questo si somma a funzioni strutturali di carattere più ampio».
Torniamo a Milano: le Olimpiadi invernali del 2026 saranno un’opportunità del calibro di Expo 2015?
«Milano-Cortina 2026 cambierà alcuni luoghi come lo Scalo Romana o l’Arena di Santa Giulia, ma si inserirà in una città molto più strutturata e molto più matura. Milano-Cortina ed Expo hanno un punto in comune: una data entro cui la città dovrà essere pronta, e questo aiuta pubblico e privato a concentrare gli sforzi. Per come siamo abituati a lavorare in Italia è una cosa utilissima. A differenza di Expo, non abbiamo detto: “Se usciamo bene dall’evento, realizzeremo queste e quelle cose”. Per le Olimpiadi è diverso.
In che modo?
«L’Arena di Santa Giulia ospiterà le gare di hockey sul ghiaccio, ma servirà anche per il “dopo”: Milano sarà in grado di ospitare un numero di eventi nettamente maggiore rispetto all’attuale capienza del Forum di Assago. Il villaggio olimpico di Porta Romana ospiterà gli atleti olimpici e paralimpici, ma serve soprattutto perché – dopo le Olimpiadi – diventerà una residenza universitaria. Abbiamo lavorato per creare delle strutture che avevano già una loro funzione, indipendentemente dalle Olimpiadi».
C’è un abisso tra la Milano che ospiterà le Olimpiadi invernali e la Milano del 2015.
«Milano-Cortina potrà servire in termini di consapevolezza della città. La Milano del 2015 aveva bisogno di riacquistare centralità a livello internazionale, mentre la Milano del 2026 vorrà dimostrare di essere una città incardinata sui concetti di sostenibilità sia ambientale, sia sociale. Come Porta Nuova e CityLife sono stati un simbolo di quegli anni, questa volta lo potrà essere un luogo come l’ex Macello: diventerà un grande quartiere con 1.200 appartamenti a prezzi accessibili. Si tratta dello stesso numero di appartamenti creati a Porta Nuova o CityLife, ma con un obiettivo che non è volto all’esclusività ma all’inclusione».
Un’ultima domanda sul verde urbano: è troppo tardi per rendere le città italiane – notoriamente impermeabili – spugnose e porose in modo adeguato?
«In Italia siamo messi indubbiamente male, anche perché non basta un cambio di sensibilità per produrre misure impattanti e coerenti. Bisogna andare in questa direzione per due ragioni: la prima tematica è il clima, la seconda riguarda il fatto che i rovesci temporaleschi possono mettere a rischio la nostra incolumità. L’urgenza è molto forte. Molti comuni più avveduti hanno in programma lavori di depavimentazione e interventi per rendere il suolo permeabile – ad esempio nei parcheggi – legati ai piani urbanistici. Ma larga parte del suolo è già impermeabilizzato, dunque gli interventi nuovi rischiano di essere di misura ridotta».