Niente panicoNel motore verde del 2035 c’è ancora posto per cilindri e pistoni

Nonostante le semplificazioni, la direttiva europea fissa un obiettivo di abbattimento delle emissioni di CO2 allo scarico, autorizzando tutti i veicoli a zero o a basse emissioni. Per cui via libera all’elettrico, ma anche all’ibrido, all’idrogeno e agli e-fuel. Le motor valley italiane possono tranquillizzarsi

Michael Fousert, Unsplash

2035, fine dei motori a combustione interna: la mobilità sarà solo elettrica o non sarà. Ma è veramente così? Davvero tra 13 anni si troveranno in vendita solo auto elettriche e cilindri, pistoni, candele e iniettori saranno solo un ricordo del passato? No, le cose non stanno esattamente così e dietro le sintesi estreme da social media (e anche sui media di carta) lo scenario è più complesso, meno radicale e però, meno male, più ragionevole.

«La direttiva Ue non parla espressamente di fine dei motori termici ma fissa un obiettivo di abbattimento delle emissioni di CO2 allo scarico – spiega Giulia Monteleone, responsabile della Divisione Produzione, Storage e Uso dell’Energia, dell’Enea – La direttiva dichiara anche la neutralità tecnologica, sono autorizzati tutti i veicoli a zero o a basse emissioni. La messa al bando dei veicoli a combustione interna è un’iniziativa che stanno prendendo alcuni Stati membri in autonomia. Ne discute anche l’Italia. Via libera quindi, teoricamente, non solo ad auto elettriche a batteria ma anche alle ibride, che coniugano energia autoprodotta e motori tradizionali, ai motori a combustione interna alimentati ad idrogeno, oltre che ai motori elettrici a celle di combustibile ad idrogeno. Via libera ai biocarburanti, ossia biodiesel e biogas, prodotti da biomassa e non di origine fossile. E via libera anche ai cosiddetti e-fuels, ossia carburanti di sintesi per motori a combustione dove le molecole del metano sono riprodotte artificialmente a partire dalla combinazione di idrogeno e CO2 di scarto: soluzioni che hanno un’impronta netta di CO2 nulla, ossia consumano più CO2 di quanta ne emettano e sono quindi sostenibili. Ma attenzione, la strada è ancora lunga».

Già la strada è lunga, il 2035 si avvicina ma tra crisi economica, crisi energetica, inflazione e guerre raggiungere questi obiettivi sarà ancora più difficile.

Intanto i numeri. In Europa ci sono circa 220 milioni di auto leggere circolanti e la quota delle elettriche è oggi del 3%. In Italia siamo a 50 milioni di mezzi, di cui 39 milioni di autovetture e 11 di mezzi pesanti. A fine 2021 circolavano, non in Italia e in Europa ma nel mondo 6,4 milioni di auto elettriche, due terzi a batteria e un terzo di ibride: +26% sul 2020, ma insomma si procede piano.

Nel primo trimestre 2022 Tesla, il numero uno mondiale, ha venduto 386mila auto, Volkswagen 332mila, GM 227mila. Gli altri tutti dietro. Ecco perché l’idea che dal 2035 andremo tutti a batteria è un po’ troppo semplicistica. Per fortuna però questo non vuol dire che la mobilità non farà la sua parte nella decarbonizzazione. Anzi, e lo si vedrà visto che pesa il 25% del totale delle emissioni globali di CO2 e che l’80% di questa quota è prodotta dal traffico del cosiddetti veicoli leggeri, ossia le automobili. Ma ci arriverà per strade diverse.

«Intanto diciamo che ci sono comparti dei trasporti dove i motori a combustione interna non sono sostituibili nel breve-medio termine, e lo saranno con difficoltà anche nel lungo termine – sottolinea il professor David Chiaramonti del Politecnico di Torino, membro del comitato scientifico (Sounding Board) della E-Fuels Alliance, associazione europea delle industrie che operano nel campo dei carburanti sintetici. Trasporto pesante, e soprattutto navi e aerei non dispongono al momento di sistemi di accumulo in grado di servire le loro grandi dimensioni, e continueranno ad usare turbine e motori ancora per molto tempo. Sugli aerei già si utilizza il biokerosene, o biojet, per produrre il quale la materia prima non è di origine fossile, ma rinnovabile, ad esempio biomasse ed oli vegetali residuali, convertiti in bioidrocarburi in apposite bioraffinerie. Qui siamo già in piena applicazione industriale. Oggi si usa una quota di biojet tipicamente compresa tra il 10 e il 50% a seconda dei tipo di biojet, miscelata con carburante fossile. In futuro potremo usarne sino al 100% e con abbattimenti delle emissioni di CO2 dell’ordine dell’80/90%. Per produrne di più serviranno azioni mirate sull’intera filiera, come implementare produzioni di biomasse da colture di rotazione e da terreni marginali, aiutando così anche l’agricoltura tradizionale alla transizione verso una maggiore sostenibilità. Ad esempio, impiegando in digestione anaerobica biomasse così prodotte si ottengono biometano e digestato, che si può reimpiegare nel suolo come fertilizzante biologico in sostituzione di quelli di origine fossile».

Attorno all’idrogeno si gioca invece una partita a due facce. L’idrogeno si può infatti usare al posto del gas sugli attuali motori a combustione, più o meno, perdonino gli scienziati, come un motore a benzina può funzionare oggi a Gpl con poche modifiche. Ma c’è un’altra soluzione basata sull’idrogeno che è invece alternativa alle batterie ed è il motore a celle a combustibile. In sostanza, è un motore che produce energia elettrica utilizzando l’idrogeno contenuto nel serbatoio ed emettendo solo vapore acqueo. La tecnologia c’è. La Toyota ha già dichiarato che vede nei motori a celle di combustibile a idrogeno il futuro e ha già messo sul mercato dei modelli. Ma anche Honda e Hyundai hanno in catalogo modelli a fuel cell. La tecnologia è quindi pronta.

«Oggi i serbatoi per l’idrogeno sono sicuri e resistenti a pressioni fino a 700 bar – sostiene Giulia Monteleone – Un’auto può disporre di un serbatoio da circa 5 kg di idrogeno, che garantisce una percorrenza di circa 600 km. Insomma, con un kg di idrogeno si fanno circa 120 km. E il costo di un pieno è al momento inferiore agli 80 euro, visto che l’idrogeno si vende tra 10 e 15 euro al kg. Il problema è un altro. Anzi, sono due. Il primo è che manca ancora tutta l’infrastruttura, ossia la rete di distribuzione dell’idrogeno per rifornire le stazioni di servizio. Il secondo è relativo alla disponibilità dell’idrogeno. Oggi più del 95% dell’idrogeno prodotto è identificato come “grigio”, cioè ottenuto dalle fonti fossili, quindi con emissioni di CO2 in atmosfera. Secondo gli obiettivi europei sulla decarbonizzazione bisognerà sostituire l’idrogeno grigio con l’idrogeno verde, ossia quello ottenuto da elettrolisi utilizzando energia elettrica da fonti rinnovabili. E l’Ue spiega che deve essere energia verde “addizionale”. Ossia, aggiuntiva rispetto alla quota di rinnovabile che ogni Paese membro dovrà istallare per raggiungere gli obiettivi di neutralità posti al 2030 e al 2050 Insomma le sfide da affrontare sono numerose, non si fermano alla disponibilità di nuovi motori con celle a combustibile ad idrogeno, ma riguardano l’intera filiera, a partire dalla produzione dell’energia rinnovabile».

Un po’ complicato ma ha una sua logica, specie se si vuole incentivare in ogni modo e senza scorciatoie la transizione energetica del Vecchio Continente.

Tecnologia e industria insomma sono pronte. Ora manca solo il mercato, il che vuol dire investimenti e scelte di politica economica che sostengano la transizione energetica nei fatti. Spiega infatti Michele Viglianisi, responsabile Bio Refining & Supply di Eni: «L’idrogeno verde è certamente uno strumento efficace dal punto di vista ambientale, tuttavia si tratta di una tecnologia in fase di crescita e i costi di produzione sono ancora elevati (circa 8-9 volte in più rispetto l’idrogeno grigio). Anche il costo di produzione dei biocarburanti è sostenuto (2-3 volte più alto di quello dei carburanti fossili), sono però carburanti a bassa intensità carbonica già disponibili e immediatamente utilizzabili: quindi, senza incentivi che ne promuovano la diffusione, si procederebbe molto lentamente nella riduzione delle emissioni di questo settore. Oggi il nostro impiego di biocarburanti si spinge fino al 15% nei nostri prodotti premium, abbiamo inoltre sperimentato miscelazioni fino al 50% per il trasporto navale e blending dello 0,5% su quello aereo. Eni crede nella neutralità tecnologica e promuove tutti gli strumenti disponibili per una mobilità sostenibile, naturalmente impiegati in modo da valorizzarne al meglio le potenzialità e in relazione all’effettivo grado di maturità tecnologica. Con riferimento, per esempio, alle recenti disposizioni Europee e Italiane sulla mobilità stradale, saremo pronti a fornire nelle nostre stazioni di servizio biocarburanti in purezza al 100% dal 2023, così come recentemente previsto da DL Energia. Abbiamo trasformato due delle nostre raffinerie, Porto Marghera e Gela, in bioraffinerie che lavorano biomasse e olii vegetali esausti. Ad oggi abbiamo una capacità di raffinazione di 1,1 milioni di tonnellate, in rapida crescita. Entro i prossimi dieci anni avremo una capacità di bioraffinazione da 6 milioni di tonnellate, anche riconvertendo ulteriori impianti. Puntiamo a mantenere la nostra attuale quota di mercato anche nel nuovo scenario, ma sosteniamo anche la diffusione delle auto elettriche mediante il potenziamento della infrastruttura di ricarica, arriveremo nel 2025 a 30 mila punti di ricarica Be Charge-Plenitude e a Torino abbiamo avviato un nuovo sistema, nell’ambito del car sharing, che prevede la sostituzione rapida delle batterie scariche in modo che un’auto possa ripartire dalla stazione di servizio in pochi minuti».

Tutte le filiere interessate sono dunque in movimento. L’Ue le alimenta con i suoi fondi, anche sul versante degli E-fuels, dove si è ancora ai progetti pilota. E sull’idrogeno sta attivando i 5,4 miliardi di euro dell’Ipcei Hy2Tech, i progetti di interesse europeo dove l’Italia partecipa con 6 progetti industriali (Alstom, Ansaldo, De Nora/Snam, Enel, Fincantieri, Iveco) e i 2 progetti di R&I di Enea e Fondazione Bruno Kessler. È il secondo Paese Ue per numero di progetti presentati: dietro alla sola Francia, con 10 e prima della Germania, con 4. E le motor valley italiane continuano a sperare.

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