Il porto di Shanghai sta lentamente tornando alla normalità: ma non a quella prima del Covid, solo a quella dello scorso autunno: i tempi di attesa per le operazioni di carico e scarico delle grandi navi ferme in rada si sono ridotte dalle 69 ore di aprile a 36 ore a maggio, e siamo ancora a +13% rispetto al maggio 2021. Il governo cinese sta allentando restrizioni e controlli ma con cautela: più veloce nell’area del porto, che ha recuperato il 95% di attività; meno nella rete logistica terrestre, dove il movimento dei tir è ancora rallentato dai controlli antivirus. Anche se i grandi numeri nascondono spesso realtà più complesse: secondo l’ultima analisi di Ocean Port Report, mentre il tempo di sosta per le navi in partenza dalla Cina è tornato ai livelli di prima, sotto i tre giorni, quelle che devono sbarcare restano ferme oltre dieci giorni. Insomma, l’emergenza non è finita e la rete mondiale dell’economia si prepara a una nuova fase di sofferenza: quella di una ripartenza squilibrata. I prezzi dei container sono la cartina al tornasole: sono scesi, ma di poco. Finora ce n’è stata scarsità perché rimanevano bloccati sulle banchine di porti cinesi o sulle navi in rada non scaricate. Ma se le fabbriche cinesi ripartono, ci sarà una nuova scarsità di offerta e i prezzi torneranno a salire.
Incrociate tutto questo con la crisi della globalizzazione, eufemisticamente ribattezzata “fase 2”, con il rientro di molte aziende che avevano delocalizzato produzioni in Asia, il ritorno verso occidente di produzioni strategiche come i chip, i costi in salita della catena logistica che consiglia molti settori economici e moltissime imprese ad accorciare le distanze rispetto ai propri fornitori ed avrete un sommario quadro di che cosa sta sconvolgendo le strategie dell’economia globale. E come se non bastasse c’è la guerra in Ucraina.
Tutto questo ha per adesso pochi vincitori. Alcuni scontati e noti, come le Big Tech Usa del commercio online, i produttori di energia e le reti energetiche. Ma a questi si aggiunge una nuova ultima categoria: gli armatori, i signori delle grandi navi merci che navigano lungo il sistema sanguigno dell’economia, le grandi rotte delle merci. Sono dieci i big mondiali dello shipping, giganti del mare che vanno dalla Maersk alla Msc di Gianluigi Aponte, dalla compagnia di Stato cinese Cosco all’altra cinese Evergreen, quella della nave che ha tenuto chiuso per giorni il canale di Suez. Assieme governano la quasi totalità della capacità di stiva globale. E, come se non bastasse, si sono riuniti in tre grandi alleanze, che collaborano tra di loro.
La maggiore è la 2M, sigla che indica i suoi due unici associati, Msc e Maersk: assieme hanno 1.322 navi, una capacità di 8,2 milioni di container. La seconda è la Ocean Alliance, composta dalla francese Cma-Cgn, dalla Cosco e dalla Evergreen, con 1.200 navi e 7,3 milioni di capacità di trasporto di container. La terza è la THE Alliance, 643 navi e 5,5 milioni di container di capacità, formata dalla tedesca Hapag-Lloyd, la sudcoreana Hmm, Hyundai Merchant Marine, la taiwanese Yang Ming e dalla giapponese One-Ocean Network Express. Tutte assieme rappresentano l’85,2% della “stiva mondiale”, come dicono nel settore, e il 100% della stiva verso l’Europa. E quest’anno faranno profitti record per ben 150 miliardi di dollari.
Al momento le grandi compagnie armatoriali sono tra i soggetti più liquidi al mondo. E stanno investendo. Msc, che punta all’acquisizione di Ita, la ex Alitalia, ne è un buon esempio. E neanche l’unico. Nei mesi scorsi la francese Cma è entrata in Air France-Klm e l’anno scorso ha acquisito il gruppo Ceva, gigante dei servizi della catena di forniture per le industrie con un fatturato da 7 miliardi di euro. La danese Maersk, che ha da poco ceduto il trono di regina del trasporto container proprio alla Msc, ha comprato invece nelle scorse settimane due compagnie aeree cargo, la Pilot e la Senator.
Non sono mosse casuali ma il segnale di una accelerazione del processo di integrazione verticale di questi giganti della logistica marittima verso il resto del settore: lo shipping sbarca a terra. Si era partiti alcuni anni fa con le acquisizioni dei terminal portuali, dove però si è ancora vicini al core business, in qualche modo. Invece adesso le strategie si spostano verso le strade e le ferrovie.
Seguire le mosse di Msc, compagnia di diritto svizzero ma di proprietà della italianissima famiglia Aponte può essere utile per capire meglio cosa sta succedendo. Anche perché – secondo i dati di Assoterminal, Msc in Italia ha un peso crescente: controlla il 40% dei porti italiani. Nel portafoglio attività del gruppo c’è anche una compagnia di treni merci, Medway, che sta comprando tratte ferroviarie anche in Austria e in Germania. Il gruppo poi starebbe anche acquisendo una azienda campana di trasporto su gomma. E poche settimane fa ha concluso un’ennesima acquisizione, quella della francese Bolloré Logistic, gruppo attivo in modo particolare in Africa, uno dei gioielli della famiglia del finanziere Vincent Bolloré, presidente del gruppo Vivendi, che è anche il maggiore azionista di Telecom Italia.
Il problema, a questo punto, è capire dove può portare questa crescente concentrazione economica nel settore della logistica. Va però segnalato che dietro la crescita impetuosa dei giganti dello shipping c’è anche molta Europa. I numeri Uno, Due e Tre del settore mondiale sono appunto gli “svizzeri” di Msc, i danesi di Maersk e i francesi di Cma. Dietro alla loro crescita c’è anche la Tonnage Tax europea, che concede agli armatori sgravi fiscali per incentivare le flotte a navigare sotto bandiere dei paesi Ue. «E ha funzionato – spiega Silvia Moretto, presidente di Fedespedi, l’associazione delle imprese italiane del settore spedizioni internazionali, a cui fanno capo 50 mila addetti – e va anche detto che ha aiutato gli armatori negli ultimi 15 anni, caratterizzati da costi del trasporto navale molto bassi. Ma ora, con la nuova congiuntura economica e con le integrazioni verticali dei gruppi dello shipping, si creano squilibri: di fatto le compagnie logistiche di terra si trovano a competere nei porti con l’offerta di società che fanno capo a gruppi armatoriali e che pagano però circa un quarto delle nostre tasse sui servizi fatturati, che ora e sempre più si estendono alla movimentazione delle merci a terra e anche nella loro distribuzione finale».
La Tonnage Tax europea è attiva anche in Italia dal 2005 e ora il governo deve decidere se confermarla oppure no. Lo farà nell’ambito di un Dcm che riguarda il recepimento di alcune direttive Ue che il governo dovrebbe varare nelle prossime settimane. E sembra orientato a confermarla. Anche se le obiezioni e le perplessità delle imprese di Fedespedi e di Assiterminal hanno già prodotto uno stralcio da un precedente decreto, conquistando altri mesi di trattativa.
Uno dei punti cruciali è quello della trasparenza delle offerte commerciali. «I grandi armatori puntano ormai a fare offerte door-to-door, ossia un prezzo unico dal prelievo della merce dal venditore fino alla consegna all’acquirente – spiega Alessandro Ferrari, direttore generale di Assiterminal (80 imprese, 4 mila addetti che movimentano il 60% dei container dei porti italiani e il 65% delle merci con un fatturato di un miliardo) – In questo prezzo unico la quota delle operazioni portuali in Italia non è evidenziata. Chiediamo che i listini siano più trasparenti».
Bisogna dunque parlare di un rischio di oligopolio nel settore? La risposta non è semplice. Da una parte va detto che l’economia mondiale globalizzata negli ultimi venti anni ha creato giganti, dalle Big Tech della Silicon Valley ai grandi gruppi industriali asiatici, soprattutto cinesi ma anche coreani, che crescono concentrando tecnologie: quindi che nascano giganti targati Unione Europea può avere anche ricadute positive. Poi va aggiunto che il boom dello shipping sta attirando nuovi soggetti, anche se per ora con quote di mercato marginali: negli Usa Amazon, Walmart e Home Depot hanno comprato container e affittato navi e lo stesso in Europa sta facendo la catena tedesca della gdo Lidl.
Ma si stanno aprendo opportunità anche per nuovi entranti. In Italia lo spedizioniere romano RifLine è entrato sul mercato lo scorso ottobre noleggiando due navi per le operazioni di import e export di clienti italiani che non trovavano spazio a bordo delle navi dei grandi armatori. «Stiamo ancora crescendo – dice l’ad Francesco Isola – le navi sono diventate cinque e a luglio saranno sette, siamo in 14 porti dal Bangladesh alla Turchia, alla Libia e quattro porti in Italia. Il fatturato del 2021 era di 30 milioni e sarà di 300 a fine anno. Nel frattempo abbiamo creato una vera compagnia armatoriale, Kcn, Kalypso Compagnia di Navigazione».
Se il fenomeno del reshoring delle industrie andrà ancora avanti le cose cambieranno ancora, la catena logistica più corta richiederà più tratte di medio raggio rispetto ai collegamenti con il Far East e gli armatori si stanno già attrezzando aumentando gli ordini di navi di stazza inferiore, tra le 8mila e le 14mila tonnellate. Tutto è insomma in movimento ma c’è da scommettere che per le autorità antitrust il carico di lavoro è destinato a salire.