Dalle alleanze alle liste, dalle proposte programmatiche alle scelte di comunicazione, in queste settimane (e non solo) Enrico Letta ha fatto obiettivamente tutto quanto era in suo potere per favorire l’affermazione in Italia di una moderna forza progressista, democratica e liberale, non compromessa con populisti e demagoghi, e soprattutto non guidata da lui. Il problema è che Carlo Calenda e Matteo Renzi, che sulla carta avrebbero dovuto essere i primi beneficiari di tanto sforzo, stanno facendo a loro volta tutto il possibile per restituirgli il favore.
Risparmio al lettore il riassunto delle puntate precedenti su alleanze e disalleanze tra Calenda e Renzi, Calenda e il Pd, Calenda ed Emma Bonino: a questo punto immagino che ognuno si sia fatto la sua opinione. La mia è che gli ultimi colpi di scena della telenovela non abbiano contribuito a dare di Calenda e del suo progetto politico un’immagine di particolare solidità e affidabilità. Ma può anche darsi che una campagna elettorale particolarmente convincente faccia dimenticare le iniziali incertezze.
Guai però se a questo scoppiettante inizio continuassero ad aggiungersi piccole furbizie come le battute di Matteo Renzi contro Andrea Crisanti, candidato dal Pd, con evidente strizzata d’occhio alla destra più insofferente a regole e restrizioni anti-covid, cioè alla peggiore e più irresponsabile di tutte le forme di populismo esistenti oggi al mondo (non per niente, subito dopo Renzi, a polemizzare con il microbiologo è puntualmente arrivato Matteo Salvini), o come la proposta del «sindaco d’Italia», cioè la seconda, e specificamente italiana, peggiore forma di populismo esistente oggi al mondo, che potremmo definire «populismo istituzionale».
Non mi sfuggono le ragioni di un simile posizionamento, anche perché sono piuttosto ovvie. Non mi sfugge il ragionamento dietro la scelta di distinguersi dal Pd impostando la campagna contro la destra in una chiave pragmatica e non demonizzante, che sia Renzi sia Calenda stanno portando avanti, con battute più o meno felici sul fatto che un governo guidato da Giorgia Meloni non sarebbe una minaccia per la nostra democrazia, bensì per il nostro portafogli, o sul fatto che il presidenzialismo non sarebbe poi così male.
Può darsi che un simile posizionamento consenta loro di sottrarre qualche voto in più a Forza Italia, ma è comunque ben strano che sia proprio il polo liberale a sminuire i rischi di un attacco alla democrazia liberale. Cioè all’equilibrio di tutto il sistema di pesi e contrappesi che il centrodestra, con una maggioranza dei due terzi dei seggi, potrebbe rapidamente compromettere, riscrivendo le regole e nominando tutte le figure di garanzia e controllo a proprio piacimento.
Sappiamo che la possibilità tecnica c’è – anzitutto per responsabilità del Pd e di Enrico Letta, come qui ho già spiegato tante volte, e continuerò a spiegare ogni giorno, almeno fino al 25 settembre – e sappiamo che c’è anche la volontà, esplicitata proprio dalla campagna a favore del presidenzialismo e dalla dichiarazione fuggita dal sen di Silvio Berlusconi sulla necessità di sloggiare Sergio Mattarella dal Quirinale un minuto dopo la riforma (che in caso di maggioranza dei due terzi non richiederebbe nemmeno un referendum).
Il passo da qui al modello ungherese non pare, obiettivamente, particolarmente lungo. Sarebbe davvero una beffa se a renderlo ancora più agevole fossero proprio coloro che si dicono liberali.