Sono mesi che m’interrogo su TikTok. Sul perché sia così ipnotico. Su cos’abbia di diverso dagli altri social network. Su Troisi e Savonarola. Su cosa stiamo diventando (questo meno, anche perché ogni volta che sto per pormi una domanda filosofica mi ricordo di quell’Altan che «Chi siamo? Dove andiamo? Che codice fiscale abbiamo?»).
Chiara Galeazzi ha scritto sul Foglio che TikTok è l’unico social sul quale si vedono i lavoratori, e io che sono un animo semplice ho pensato che in effetti l’algoritmo nelle scorse settimane era passato dal mostrarmi video di Crepet al mostrarmi video di gente che si lamenta degli stipendi bassi. Una mia amica più veloce a pensare ha commentato l’osservazione della Galeazzi dicendo: è perché è cinese (TikTok, non la Galeazzi).
La risposta l’ho trovata su Twitter, mentre facevo la cosa che quelle come me (perdigiorno abituate a trarre sostentamento dalla propria sfaccendatezza, gente senza morale che con le presenze social gratuite degli altri fa libri, articoli, e altra roba di cui poi non divide gli incassi coi vari Vongola75 che tanto l’hanno ispirata) più spesso fanno su Twitter.
Ci sono quelli che su Twitter promuovono il loro lavoro («ho scritto di», premettono al tema del giorno, aggiungendo poi speranzosi il link d’un articolo che nessuno clicca perché tutti passano le ore successive a insultarli per il titolo).
Ci sono quelli che su Twitter dicono la loro sul mondo, perché dirla ai congiunti a cena pare non bastare più, bisogna dire al mondo che si tiene all’ambiente, che si è contro la guerra, che gli assorbenti dovrebbero essere gratis e gli aerei privati inquinano (quest’ultima cosa bisogna dirla su un social i cui server inquinano quanto tutti gli aerei privati di tutti i fantastiliardari del mondo).
E poi ci siamo noialtri cialtroni che stiamo su Twitter come negli anni Novanta si guardava il Tg4: fammi vedere quanto riescono a coprirsi di ridicolo oggi.
Ero dunque intenta in quest’attività quando sono incappata in un account qualunque, di quelli costantemente indignati. Questo che chiameremo Tizio ce l’ha, con la stessa enfasi, con Israele e con Aranzulla, con me e con la Meloni, con Makkox e con Bolzaneto. Tutto è sullo stesso piano di «Vergogna, puntesclamativo», «Che schifo, puntesclamativo». Niente che non abbiamo già visto un milione di volte.
Però, a scorrere i suoi tweet, ogni tanto ce n’era uno personale. Così come quelli indignati, essi erano grida nel vuoto, privi di cuoricini e di risposte, giacché gli indignati sono troppi perché il mercato dia retta a tutti, e anche scrivere cose che si prestino al facile consenso degli utenti non ti garantisce attenzione.
I tweet in cui Tizio lasciava intuire gravissimi problemi personali erano privi d’interazioni, si spera, perché tra i suoi follower quelli che lo conoscono a quel punto l’avranno chiamato chiedendo «oh, come stai?». Fuori dall’internet, persino la gente dell’internet conserva una qualche normalità, credo. Oppure Tizio è solo punito dall’algoritmo e nessuno si è accorto del suo malessere: malesseri non diversi dai suoi sono premiati da centinaia di manifestazioni di solidarietà performative (guardami, sono buono, cuoricino i disagiati).
Io, che non conosco Tizio e non ho la pazienza di fingere preoccupazione per il benessere degli sconosciuti, quegli squarci di malessere li ho presi come un indizio. Tizio vive una vita povera di soddisfazioni ma può sfogarsi sui social, dove si scorda per qualche minuto di quel che non va nella realtà e si trasforma in castigatore di ingiustizie politiche e sociali, vite dei famosi, ricchezze immeritate.
Come ogni volta, ho detto a me stessa che i social sono una benedizione: meno male che Tizio ce li ha, sennò magari accoltellerebbe i passanti. Meno male che Vongola75 può scrivere quanto le fanno schifo i miei articoli, la mia sintassi, la mia stessa esistenza, almeno si sfoga e non me la trovo sotto casa con una pistola e una copia del Giovane Holden (questo è il punto che dovete ritagliare per metterlo su Twitter e dire che quella mitomane di Soncini si sente Lennon).
Twitter è lo stato sociale che nessuno Stato era riuscito a inventare: un posto dove, a costo zero per la fiscalità generale, Carneade possa sentirsi rilevante, sentirsi alla pari con la popstar, l’ospite televisivo, il politico, il ballerino, l’imprenditore, ai quali rimarca quanto essi non godano della sua approvazione, quanto gli facciano schifo, quanto non possano illudersi di contarlo tra i suoi fan. E, mentre annoiati dal volo privato il ballerino e l’imprenditore e il politico scorrono le notifiche, alzeranno forse mezzo sopracciglio e penseranno a Troisi con Savonarola: sì, mo me lo segno.
Tutte queste cose le ho pensate un milione di volte, ma di fronte alla misera vita di Tizio ne ho pensata un’altra. La premessa è: tutto questo ci dice che è giusto che Tizio stia sui social. E che gli studi legali che si arricchiscono facendo causa ai Tizio del mondo compiono un’impresa immorale: vogliamo che Tizio possa dirmi che sono una raccomandata incapace che ha fatto carriera dandola via a pagamento, anzi neanche, essendo io troppo cessa pure per darla gratis? Vogliamo che possa sfogarsi in questo modo innocuo, o che mi accoltelli?
La premessa è questa, e il pezzo di ragionamento che non avevo finora fatto è: ma se è cosa buona giusta e doverosa e salvifica che sui social ci stia Tizio, cosa ci facciamo noi? Cosa ci facciamo noi normali, noi con qualche piccola soddisfazione, un lavoro, una vita, uno straccio d’equilibrio psichico (precario, per carità)? Stiamo lì perché se Troisi non è alla finestra poi Savonarola come si sfoga?
Forse sì. E allora, ecco il segreto di TikTok. Che chi diavolo ha tempo e voglia di produrre video, diventa un lavoro, mica è come il penzierino su Twitter che ci metti cinque secondi e fai prima a scriverlo che a ponderare se sia il caso. TikTok è il social dove guardi gli incidenti stradali senza partecipare. Dove dai la possibilità a Tizio di dire quanto gli fai schifo, ma senza intervenire (che poi usiamo «bullismo» per tutto, e non per l’unica seria forma di prepotenza: mettersi a rispondere sui social a gente che non ha gli strumenti dialettici neanche per intervenire in assemblea di condominio).
Ci voleva la Repubblica Popolare Cinese per inventarsi un social che ripristinasse le classi sociali. In cui i giullari dilettanti si esibiscono, e noialtri ci mandiamo i video dicendoci privatamente «ma ti rendi conto», senza avere la tentazione di fargli vedere, ai dilettanti dell’esibizionismo, come si racconta una barzelletta nel mondo adulto, quello dei professionisti.